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Gli abusi sulle parti comuni

Breve ricognizione delle cc.dd. “parti comuni” nel Condominio.
Avv. Caterina Tosatti - Foro di Roma 

Come noto, il Condominio significa la 'proprietà comune' e intende indicare tutto quel complesso di beni e servizi che sono asserviti, cioè strumentali e funzionali all'utilizzo (o godimento che dir si voglia) delle singole unità immobiliari di cui un edificio è composto: banalmente, non potrei accedere al mio appartamento senza scale e/o ascensore e così via.

Come altrettanto noto, il Condominio viene a cagione di quanto sopra definito come una comunione particolare o forzata, perché da un lato l'elemento strutturale di asservimento dei beni e servizi fa sì che le unità immobiliari non possano farne a meno e che ci si possa liberare degli oneri (perdendo altresì i diritti) sulle parti comuni solamente alienando la proprietà individuale o solitaria, dall'altro, all'acquisto della mia unità immobiliare avviene automaticamente l'acquisto pro quota di diritti e doveri sui beni e servizi comuni.

Il diritto su beni e servizi comuni si sostanzia nelle quote attribuite dalle Tabelle millesimali.

In questo lavoro, cercheremo di ricordare a noi stessi quali siano i beni ed i servizi comuni e di vedere l'estensione del diritto del singolo condòmino ad usare e godere di detti beni e servizi comuni, nel rispetto del pari diritto degli altri condòmini e della destinazione dei medesimi beni e servizi.

Breve ricognizione delle cc.dd. 'parti comuni' nel Condominio

Prenderemo in esame, per semplicità d'analisi, le norme per come pervenuteci dopo la riforma recata dalla Legge 11 dicembre 2012, n. 220, entrata in vigore il 18 giugno 2013.

L'art. 1117 c.c. reca un elenco di 'parti comuni' dell'edificio in Condominio: la dottrina ha diviso le parti comuni elencate in 3 categorie:

  • le parti comuni necessarie all'uso comune, ovvero quelle di cui al numero 1) dell'art. 1117 c.c., che sono cioè essenziali per l'esistenza stessa dell'edificio e non sono suscettibili di divisione, materiale o funzionale (suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti, i tetti, i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate)
  • le parti comuni utili all'uso comune, ovvero quelle di cui al numero 2) dell'art. 1117 c.c., che sono appunto utili ai condòmini ed al godimento delle proprietà private, ma sono allo stesso tempo eventuali, nel senso che potrebbero anche non esistere e l'edificio (ed il Condominio) non muterebbe la sua natura, quindi sono divisibili (aree destinate a parcheggio, locali per i servizi in comune, come portineria, incluso l'alloggio del portiere, lavanderia, stenditoi sottotetti destinati all'uso comune per le caratteristiche funzionali e strutturali degli stessi)
  • le parti comuni accessorie, ovvero quelle di cui al numero 3) dell'art. 1117 c.c., che sono anch'esse utili all'uso ed al godimento delle parti comuni ed individuali e si individuano quindi come necessarie (opere, installazioni e manufatti di qualsiasi genere destinati all'uso comune, come ascensori, ove presenti ovviamente, pozzi, cisterne, impianti idrici e fognari, sistemi centralizzati di distribuzione e trasmissione per gas, energia e riscaldamento/condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e l'accesso da satellite o cavo e per tutti questi sistemi di distribuzione sono comuni le parti che giungono fino alla diramazione ai locali di proprietà privata dei singoli condòmini o fino al punto di utenza per impianti unitari, salve le disposizioni in materia di reti pubbliche).

Vi sono poi parti comuni accessorie che potrebbero esserci come non esserci, quali, ad esempio, spiazzi, strisce di terreno, marciapiedi o spazi verdi, che sono comuni in quanto destinate a tale uso e sempre che non sussista un titolo contrario.

Tutto quanto sopra, che rappresenta un elenco a mo' di esempio, quindi suscettibile di ampliamento ed integrazione nella prassi, vale anche laddove il diritto di godimento sia periodico (art. 1117, 1° frase, c.c.), mentre non vale qualora sussista un titolo contrario, cioè un qualcosa che attribuisca una di queste parti comuni in proprietà ad uno solo o ad alcuni condòmini: così la Cassazione sul tema: «Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto.

Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell'ambito dei beni comuni (nella specie, portico e cortile) risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni» (Cassaz., sent. n. 11812 del 27 maggio 2011).

Parti comuni in condominio

Il titolo contrario potrebbe anche essere un contratto stipulato dopo la nascita del Condominio con il quale tutti i condòmini trasferiscono la proprietà di un bene o servizio ad uno o alcuni di essi o ad un terzo.

Cosa accadrebbe, tuttavia, laddove non fosse presente un titolo contrario, quindi un simile atto traslativo e ciò nonostante si dubitasse della natura comune di un bene o di un servizio? Attenta dottrina (Celeste A. - Salciarini L. - Terzago P., Il condominio.

Trattato teorico-pratico, Milano, 2015) rammenta che in questo caso sarebbe comunque possibile sottoporre a verifica la funzione del bene o del servizio di cui si dubita sussistere la comproprietà in capo a tutti i condòmini, in quanto si potrebbe verificare l'oggettiva destinazione del bene/impianto al beneficio di tutti i condòmini o di alcuni soltanto di essi o di uno solo: d'altronde, è quanto si deduce anche dalle pronunce della Cassazione in tema di tassatività o meno dell'elencazione fornita dall'art. 1117 c.c., ex plurimis, Cass., sent. n. 6781 del 04 maggio 2012, «In tema di condominio negli edifici, l'art. 1117 c.c. esprime un principio di carattere generale, a termini del quale, ove un bene del complesso immobiliare, su cui insiste il condominio, comunque risponda a requisiti di destinazione oggettiva e funzionale al godimento o al servizio della collettività dei partecipanti, ancorché non rientrante nella elencazione normativa, si presume di proprietà comune, a meno che il contrario non risulti con chiarezza dal titolo».

Questi elementi si rivelano importanti perché, da un lato, non sussiste alcun obbligo di legge, imposto all'Assemblea o all'Amministratore, di redigere un elenco di beni e servizi comuni, dall'altro, detto elenco è spesso contenuto nei Regolamenti condominiali, ma presenta problematiche di vario tipo, non ultimo il fatto che, per come formulato o per la mancanza delle necessarie forme, non vale ad escludere la proprietà privata su alcune parti.

Quindi l'interprete deve sempre porre la massima attenzione ed analizzare sì il Regolamento, ma anche i singoli atti di acquisto; non è infrequente, infatti, che un soggetto alieni ciò che non ha, pur in violazione del basilare principio nemo transferre potest plus quam sibi habet (cioè non posso vendere ciò che non è di mia proprietà), così creando non pochi problemi ai suoi aventi - causa ed agli altri condòmini, improvvisamente privati (sino all'annullamento dell'atto di alienazione e salvi i diritti di usucapione) dell'uso del bene o servizio venduto.

A chi spetta l'onere della prova del titolo contrario? Secondo il Tribunale di Roma, al condòmino che afferma la sua proprietà esclusiva sul bene o servizio, risalendo alla pattuizione contenuta nel primo atto di vendita dell'unità immobiliare (sent. 21 maggio 2021, n. 8868).

Inoltre, di recente la Cassazione si è espressa affermando che anche la stipula della polizza assicurativa per la c.d. 'tutela legale', cioè quella polizza che copre le spese legali affrontate dal Condominio, laddove inerente le azioni concernenti le parti comuni dell'edificio, promosse dal Condominio o contro di esso, spetta all'Assemblea ed è invece sottratta all'autonomia dell'Amministratore (Cass., ord. 07 aprile 2022, n. 11349).

Dall'uso all'abuso: analisi della casistica giurisprudenziale

Esaminato l'elenco, lo ribadiamo, non esaustivo, delle possibili parti comuni e delimitato così il campo d'indagine, vediamo ora come queste parti comuni siano utilizzabili dai condòmini.

All'uopo, rammentiamo che anche le situazioni che già l'opera pretoria della giurisprudenza aveva da tempo incluso nella nozione di 'Condominio', quali il c.d. Supercondominio ed il c.d. condominio minimo ed orizzontale, sono oggi incluse espressamente e formalmente nella famiglia, stante il disposto dell'art. 1117 bis c.c.

Altra norma che tutela l'uso (o contro l'abuso) delle parti comuni è quella recata dal combinato disposto dei nuovi artt. 1117 ter e quater c.c.: il primo volto a regolamentare le decisioni che l'Assemblea voglia adottare per modificare la destinazione d'uso delle parti comuni, il quale prevede un articolato meccanismo di convocazione 'aggravata' ed una speciale nullità laddove la convocazione non indichi le parti comuni la cui destinazione si intenda modificare e la nuova destinazione che si voglia imprimere, precisando che il cambio di destinazione, come accade per le innovazioni, non può recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza dell'edificio o alterarne il decoro architettonico; il secondo volto a permettere anche al singolo condòmino, oltre che all'Amministratore, di diffidare l'esecutore di attività che incidano negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, nonché a richiedere la convocazione di Assemblea che deliberi in merito alla cessazione.

Ciò premesso, ai sensi dell'art. 1118 c.c. ogni condòmino ha diritto di usare le parti comuni per come previsto dal suo 'titolo' - quindi, l'eventuale atto di compravendita che gli conferisca particolari prerogative o il Regolamento adottato all'unanimità dei condòmini o altra convenzione, sempre tra tutti i condòmini - ed in modo proporzionale al valore dell'unità immobiliare di sua proprietà - quindi, in base ai millesimi di proprietà.

Ai sensi dell'art. 1102 c.c., il condòmino, quale comproprietario delle parti comuni, può servirsi di esse, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condòmini di farne pari uso secondo il loro diritto, anche apportando modifiche alla cosa comune.

Rammentiamo che, quando si parla di 'pari uso', non dobbiamo intenderlo come uso identico (ad esempio, se io apro una porta, tutti gli altri devono poter aprire una porta delle stesse dimensioni e con le medesime caratteristiche), perché è facile immaginare che se fosse così si impedirebbe qualsiasi uso particolare o a solo vantaggio di un condòmino, dato che la collocazione nello spazio e nel tempo del bene comune su cui si va a incidere è una variabile di quantità finita, per cui è ovvio che, dalla prima modifica in poi, il campo si restringa.

La Cassazione, sul punto, rammenta sempre come si tratti di uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno, o meglio, come «il giudice debba accertare se siano prevedibili modificazioni della cosa comune uguali o analoghe da parte degli altri condòmini e se queste potrebbero essere pregiudicate dalle modifiche attuate o in via di attuazione» (così Cassaz., sent. n. 1637 del 04 aprile 1983).

Diamo un esempio plastico e tratto da un caso concreto: la Cassazione ha ritenuto legittima l'apertura di un varco di accesso a cura di un condòmino per collegare il cortile comune alla sua proprietà esclusiva, purchè tale varco non impedisca agli altri condòmini di utilizzare il cortile come facevano prima (Cassaz., sent. n. 42 del 05 gennaio 2000).

Vediamo allora, come spesso è solita fare la dottrina, che cosa ha affermato la giurisprudenza rispetto ad alcune parti comuni che sono spesso oggetto di uso ed abuso da parte dei singoli condòmini.

In materia di suolo e sottosuolo (parti comuni necessarie a mente dell'art. 1117, n. 01), c.c.), si è ribadito che «la zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiaria che è alla base dell'edificio, in mancanza di un titolo che ne attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini.

Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all'escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l'altrui uso e godimento ad essa pertinenti» (Cassaz, sent. n. 29925 del 18 novembre 2019).

Circa i muri maestri, si è precisato quali essi siano in recente arresto: «I muri perimetrali dell'edificio in condominio, pur non avendo funzione di muri portanti, vanno intesi come muri maestri al fine della presunzione di comunione di cui all' art. 1117 c.c., poiché determinano la consistenza volumetrica dell'edificio unitariamente considerato, proteggendolo dagli agenti atmosferici e termici, delimitano la superficie coperta e delineano la sagoma architettonica dell'edificio stesso.

Pertanto, nell'ambito dei muri comuni dell'edificio rientrano anche quelli collocati in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e in posizione avanzata o arretrata rispetto alle principali linee verticali dell'immobile» (Cass., sent. n. 11288 del 10 maggio 2018) - specificazione resa necessaria dal fatto che l'art. 1117, n. 01), c.c. prevede, tra le parti comuni 'necessarie' i «muri maestri», quindi la Cassazione elabora su questo concetto per includervi i muri perimetrali, apparentemente esclusi ed i muri in corrispondenza dei piani di proprietà solitaria o in posizione avanzata o arretrata rispetto al prospetto dell'edificio.

Rispetto all'uso del muro, mentre da tempo risalente si ammettono l'apertura di nuove porte, la trasformazione delle finestre e degli ingressi in balconi o in vetrine da esposizione, perché si tratta di modifiche che non incidono sulla destinazione dei muri, è da sempre ritenuto illegittima l'apertura di un varco sul muro perimetrale che metta in comunicazione la proprietà del condòmino, sita nell'edificio, con altra proprietà, sempre di sua proprietà, ma collocata in edificio diverso ed estraneo al Condominio, perché in questo caso si ha mutamento della destinazione del muro, data la cessione a favore di soggetti estranei del godimento del bene comune, quindi una servitù del muro condominiale a favore dell'immobile ultroneo ed 'esterno' ad esso, possibile unicamente con il consenso scritto di tutti i partecipanti (condòmini) al Condominio (Cassaz., sent. n. 9036 del 19 aprile 2006).

Ancora, di recente la Cassazione si è così espressa circa l'utilizzo del muro maestro da parte del singolo per apportare vantaggio alla propria unità immobiliare: «I lavori eseguiti su di un muro maestro (scavo di una nicchia, allargamento o apertura di un varco) posto all'interno di un singolo appartamento al fine di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare qualora non pongano in pericolo la fondamentale funzione di assicurare la stabilità dell'edificio, non integrano un abuso della cosa comune, suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, a condizione, che i lavori non compromettano la sicurezza o altre essenziali caratteristiche del muro posto a servizio dell'edificio» (Cassaz., ord. n. 35851 del 22 novembre 2021).

Quanto al lastrico solare, riportiamo, sebbene si riferisca a questioni di risarcimento del danno, la recente pronuncia della Cassazione ove si è affermato che «la responsabilità per i danni derivanti dal lastrico solare o della terrazza a livello il cui uso non sia comune a tutti i condomini va qualificata non nell'ambito dei rapporti di natura obbligatoria che si instaurano nel condominio in forza della coesistenza delle proprietà individuali con quelle comuni (nella specie di obbligazioni propter rem), ma nell'ambito della responsabilità aquilana, ex art. 2051 c.c., con l'effetto che dei relativi danni rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria (Cass. S.U. n. 9449 del 2016; Cass. n. 3239 del 2017); da tale orientamento, che si condivide, discende che il rapporto di responsabilità che si instaura tra i diversi obbligati va ricostruito in termini di solidarietà, ai sensi dell'art. 2055 c.c., il quale esclude, per giurisprudenza costante di questa Corte, il litisconsorzio necessario di tutti i presunti autori dell'illecito, sicché il danneggiato ben può agire nei confronti del singolo condomino, senza obbligo di citare in giudizio gli altri condomini (Cass. n. 20692 del 2016; Cass. n. 1674 del 2015)» (Cassaz., ord. n. 516 del 11 gennaio 2022).

Come noto, il nuovo art. 1122 bis c.c. ha regolato, a partire dal 18 giugno 2013 in poi, la fattispecie dell'installazione di impianti non centralizzati (quindi privati) per la ricezione radiotelevisiva e per la produzione di energia da fonti rinnovabili.

È stato osservato (Celeste - Salciarini - Terzago, cit. sopra) che la norma è una specificazione delle facoltà consentite al singolo condòmino, cioè è una species del genus dettato dall'art. 1102 c.c.

Singolare la previsione contenuta nell'art. 1122 bis c.c., 1° comma, la quale prevede che l'installazione degli impianti per la ricezione radiotelevisiva sia eseguita in modo da recare il minor pregiudizio alle parti comuni «e alle unità immobiliari di proprietà individuale», continuando nel 2° comma nel prevedere che l'installazione degli impianti di produzione di energia non centralizzati (quindi, individuali) sia eseguibile sul lastrico solare e su ogni altra idonea superficie comune, nonché «sulle parti di proprietà individuale dell'interessato»; singolare perché è quantomeno bizzarro che il Legislatore spieghi al proprietario del bene che cosa può fare con quel bene, dato il contenuto del diritto di proprietà il quale, l'ultima volta che abbiamo controllato, era sempre stabilito erga omnes e ab infera usque ad sidera.

In parole povere, con la sua proprietà ciascuno fa ciò che vuole, nei limiti dei diritti altrui, per cui non si vede la necessità di specificare al proprietario che può eseguire opere sulla sua proprietà e che dette opere (da lui eseguite sulla sua proprietà) non devono ledere la sua proprietà…

È opportuna invece la disposizione del 3° comma dell'art. 1122 bis c.c., in quanto permette un controllo da parte del Condominio di quanto verrà realizzato dal singolo con lo sfruttamento di parti comuni, quando sia necessario modificarle, arrivando alla possibilità di dettare, da parte dell'Assemblea e in caso di installazione di impianti di ricezione radiotelevisiva, modalità esecutive alternative delle opere di installazione o di imporre cautele a salvaguardia di sicurezza, stabilità e decoro.

Per gli impianti di produzione di energia, il comma 3° specifica «e, ai fini dell'installazione degli impianti di cui al 2° comma», così separando la soluzione appena vista (esecuzione alternativa e cautele) dalla successiva, che prevede invece, su richiesta dell'interessato (quindi, di colui che vuole eseguire l'impianto), una delibera che ripartisca l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni (usate dall'interessato per porvi l'impianto di produzione a suo vantaggio), pur salvaguardando le diverse forme di utilizzo eventualmente previste dal Regolamento o in atto, con la possibilità di imporre una cauzione all'interessato, a garanzia di eventuali danni.

Sebbene poi l'ultimo comma preveda che gli interventi (questa volta per entrambi i tipi di impianti) non siano soggetti ad autorizzazione (si intende preventiva) da parte dell'Assemblea - salve unicamente le disposizioni già viste contenute nel 3° comma, che però non sono qualificabili come 'autorizzazione' - parte della giurisprudenza sembra richiedere una delibera, come il Tribunale di Roma che, di recente, ha affermato: «Il proprietario non può installare i pannelli fotovoltaici sul lastrico solare comune senza prima aver interpellato l'amministratore del condominio e poi aver ricevuto l'autorizzazione dell'assemblea condominiale» (Trib. Roma, sent. n. 15430 del 05 ottobre 2021).

Proprietario vuole installare i pannelli fotovoltaici: quali poteri all'assemblea condominiale?

Ed infine, cosa accade quanto un condòmino, che abbia compiuto un abuso della cosa comune, vende la propria unità ad un terzo?

In una recente ordinanza (Cassaz., ord. n. 41490 del 24 dicembre 2021), la Cassazione ha affrontato il problema.

Prendendo le mosse dall'ormai noto principio di pari uso di cui all'art. 1102 c.c., la Corte specifica che la nozione di pari uso è ispirata al principio di solidarietà condominiale, quindi è necessario ricorrere ogni volta alla ricerca di un costante equilibrio fra esigenze e interessi di tutti i condòmini.

Nuovamente viene citato il 'prevedibile' uso potenziale e simile che gli altri condòmini potrebbero voler fare della cosa comune e la necessità di dare rilievo alla destinazione del bene comune tramite presupposti di natura economica, giuridica e di fatto, come già visto sopra.

Fermo restando che non sarebbe possibile introdurre, per il tramite del Regolamento condominiale o di delibere ad hoc, un divieto generalizzato di utilizzo delle parti comuni, nemmeno, di contro, è possibile prevedere un uso esclusivo della cosa comune a favore di un solo condòmino, in quanto si creerebbe un diritto reale atipico in violazione del principio del 'numero chiuso' dei diritti reali e si violerebbe la ratio dell'art. 1102 c.c.: così, da ultimo, Cassaz., Sezioni Unite, sent. n. 28972 del 17 dicembre 2020, per cui «la pattuizione avente ad oggetto l'attribuzione del c.d. "diritto reale di uso esclusivo" su una porzione di esso, costituente, come tale, parte comune dell'edificio, è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del "numerus clausus" dei diritti reali e della tipicità di essi, atteso che essa mira alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, idoneo ad incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall' art. 1102 c.c. Pertanto, il titolo negoziale, che siffatta attribuzione abbia contemplato, impone di verificare se al momento di costituzione del condominio le parti non abbiano voluto trasferire la proprietà ovvero, sussistendone i presupposti normativi previsti e, se del caso, attraverso l'applicazione dell' art. 1419 c.c., costituire un diritto reale d'uso ex art. 1021 c.c. ovvero, ancora se sussistano i presupposti, ex art. 1424 c.c., per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (ovviamente inter partes) di natura obbligatoria».

Al netto di queste ipotesi 'estreme', l'Assemblea può regolamentare situazioni di uso maggiormente incisivo da parte di alcuni condòmini del bene comune, ad esempio regolando un bene tramite l'uso turnario o frazionato, ma sempre mantenendosi nei limiti di cui all'art. 1102 c.c.

Quando anche una sola delle due condizioni di cui alla norma (pari uso e mantenimento della destinazione del bene) viene a mancare, si determina la situazione di abuso.

Nel caso sottoposto alla Cassazione, un condòmino aveva creato un torrino al cui interno era celata una scala a chiocciola che creava un accesso diretto e riservato all'unità immobiliare di sua proprietà dalla terrazza condominiale, tale per cui i giudici del merito ritennero modificato strutturalmente il suolo comune rispetto allo status quo ante originario, con occupazione di una porzione di terrazzo ed assoggettamento ad un uso diverso, con soppressione di quello iniziale.

A questo abuso gli altri condòmini possono agire con l'azione reale di cui all'art. 1102 c.c., volta ad accertare i limiti della comproprietà sul bene comune, la quale, in quanto reale, è imprescrittibile.

Anche l'Amministratore in questo caso potrebbe agire in giudizio, perché si tratterebbe di tutela del bene comune, rientrante nelle facoltà di cui all'art. 1130, n. 4), c.c. (Cassaz., sent. n. 6190 del 03 maggio 2001).

A fronte di tale reazione, il nuovo condòmino, che aveva acquistato l'unità immobiliare comprensiva del torrino, si è visto privato di parte del bene acquistato (il torrino con la scala di accesso).

A tale proposito, la Cassazione, spiegando che si verte in tema di evizione (sottrazione) del bene compravenduto, quindi in violazione di una delle garanzie fondamentali ed obbligazioni che il venditore assume con il contratto di vendita, ha distinto il caso in cui l'evizione sia totale o parziale, cioè quando l'acquirente sia privato in tutto o in parte del bene alienato, dall'ipotesi di cui all'art. 1489 c.c., che sussiste quando le limitazioni subìte dall'acquirente riguardano il godimento del bene o l'imposizione di oneri che però lascino integra l'acquisizione patrimoniale.

Questo ultimo tipo viene definito evizione limitativa, perché, al contrario di quanto accade per le altre tipologie, gli oneri o i diritti reali di godimento non apparenti o personali di terzi non sono idonei ad incidere sulla titolarità del bene o del diritto acquistato che rimane integra, ma soltanto sul libero godimento dello stesso (Cass., sent. n. 24055 del 25 settembre 2008).

Tuttavia, affinché sia invocabile, tale categoria di evizione richiede la verifica di alcuni requisiti, quali la sussistenza, alla conclusione del contratto, di oneri di carattere pubblico o privato o di diritti reali o personali di godimento in capo a terzi opponibili al compratore (quindi, trascritti prima del contratto di cui si tratta), la 'non apparenza' di tali oneri o diritti e l'omessa o falsa dichiarazione circa gli stessi da parte del venditore e l'ignoranza (incolpevole) di tali oneri o diritti in capo all'acquirente.

La conseguenza per il compratore è la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto o una riduzione del prezzo.

La Cassazione conclude affermando che «la garanzia per evizione opera, invero, per il solo fatto obiettivo della perdita del diritto acquistato, la quale comporta l'alterazione del sinallagma contrattuale e la conseguente necessità di porvi rimedio, indipendentemente dalla sussistenza della colpa del venditore o dalla buona fede dell'acquirente e, quindi, non è esclusa neppure dalla conoscenza, da parte del compratore, della possibile causa di futura evizione, ove la stessa effettivamente si verifichi».

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