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Una parte comune può diventare privata

Quando un bene in comunione può diventare di proprietà singola? Occorre sempre che sia intercorso un atto tra le parti?
Avv. Anna Nicola - Foro di Torino 

La parte comune

Per parte comune si può intendere un bene o un servizio che costituisce oggetto di comunione tra più persone ovvero che si qualifica come bene condominiale, cioè bene oggetto di quella particolare comunione che si ha in una fattispecie condominiale.

In entrambi i casi l'elemento determinante è dato dalla sussistenza della comproprietà: due o più soggetti hanno il simultaneo diritto di proprietà della cosa, cioè hanno la sua comproprietà.

Ci si può allora interrogare sul se e come la comproprietà possa diventare proprietà solitaria, detto in altro modo sul se e come una parte comune possa diventare privata.

Le fattispecie che vengono subito in considerazione sono, da un lato, la compravendita e, dall'altro, l'usucapione.

Vendita del bene comune

Il bene comune può costituire oggetto di compravendita.

Sia in ambito di comunione, sia in ambito di condominio trova applicazione l'art. 1108 c.c.

Si ricorda che per il condominio si attuano le norme in tema di comunione grazie all'art. 1139 c.c., norma di rinvio alle disposizioni di questo istituto semprechè vi sia compatibilità.

L'art. 1108 c.c. dispone l'obbligo dell'unanimità dei compartecipanti: tutti i comunisti/condomini devono manifestare il consenso al trasferimento del diritto reale del bene ad altro soggetto.

In condominio questo consenso può essere espresso con deliberazione assembleare, sotto il profilo di decisione interna mentre per poter trasferire effettivamente il diritto occorre che venga stipulato tra le parti (comunisti/condomini e terzo contraente) il contratto di compravendita in forma scritta, trattandosi nella quasi totalità dei casi di bene immobile.

Come di recente affermato dalla Suprema Corte (Cass. n. 9361/2021), la proprietà spetta pro quota a tutti i condomini: come per ogni altro bene, essa può essere trasferita solo con il consenso di tutti i titolari del bene.

In assenza della totalità dei consensi il contratto di compravendita è affetto dal vizio d nullità: esso non produce e non può produrre alcun effetto.

Quanto sin qui detto non trova diversa disciplina se la comunione o il condominio sono fattispecie minime o, sul versante opposto, complesse o supercondominio.

Anche quando l'immobile vede solo tre proprietari, occorre il consenso di tutti e tre i titolare per poter vendere, ad esempio, un'area comune del palazzo.

Come noto, il condominio si costituisce immediatamente quando l'unico proprietario dell'immobile ne vende anche solo una parte.

Comunione pro diviso e pro indiviso

Si pensi a titolo esemplificativo al caso in cui un genitore, proprietario di una villa, divide l'immobile in due alloggi indipendenti, per poterli conferire in eredità ai suoi due figli.

In questo caso, il condominio nasce per le parti comuni: il tetto, le fondamenta, le scale, la facciata e così via.

Se i figli decidono di vendere una parte comune, ad esempio, uno spazio del cortile, occorre sempre il consenso di entrambi, cioè l'unanimità.

L'usucapione di parte comune

L'usucapione può formarsi anche su parti comuni, in comunione o in condominio. La particolarità di queste fattispecie è che non è sufficiente il semplice uso del bene come se si fosse il proprietario, perché qui il diritto di (com)proprietà già esiste in capo ai singoli partecipanti.

Di recente è intervenuto il Supremo Collegio (Cass. 24.11.2020, n. 26691) fornendo una chiara indicazione delle condizioni sulla cui base è possibile usucapire una parte comune dell'edificio, tra comproprietari.

Nello specifico, osserva la Corte, occorre che il comproprietario possessore mantenga un possesso continuativo e indisturbato del bene per almeno 20 anni e allo stesso tempo impedisca concretamente, agli altri comproprietari, di farne parimenti uso.

La seconda condizione è l'aspetto più interessante perché l'uso del bene da parte del condomino come se fosse proprio rientra nei poteri/diritti del singolo, essendo sancito dalla legge.

Vista la comproprietà del bene, il suo uso esclusivo è stabilito dall'art. 1102 c.c. Questa norma dispone che ciascun condomino può usare liberamente della cosa comune, per i propri interessi, semprechè non ne modifichi la destinazione d'uso e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso.

Per l'usucapione di beni in comproprietà non ha rilievo il fatto che gli altri comproprietari si astengano dall'uso della cosa comune (Cass. ord. n. 24781/2017), essendo necessaria l'esclusiva e totale detenzione del bene, che si pone in contrasto con il diritto degli altri condomini.

Si riportano alcuni esempi: è legittimo utilizzare il lastrico solare per stendere i panni, salvo diversa disposizione del regolamento così come è lecito far giocare i figli nel cortile del condominio nelle ore pomeridiane mentre è vietato, perché incompatibile con la proprietà comune, chiudere un'area del parcheggio comune con delle sbarre oppure chiudere la botola del sottotetto comune di cui solo un condomino detiene le chiavi.

Assemblea della comunione e silenzio-assenso: un caso particolare

Risulta chiaro da questi esempi che ciò che caratterizza l'usucapione del bene comune da parte di uno dei comproprietari è la manifestazione del dominio esclusivo per mezzo di un'attività durevole (di base, 20 anni) e incompatibile con il possesso degli altri.

Ciò significa che il soggetto deve impedire agli altri comunisti/condomini di usare della cosa, escludendolo dal possesso. Questo è il caso del condomino che chiude il ballatoio comune, non permettendo più agli altri di transitare per raggiungere i rispettivi alloggi e pertinenze.

L'art. 1102 c.c. permette il possesso del comproprietario in modo compatibile con quello degli altri contitolari, non potendo qualificarsi in nomine proprio. Quest'ultimo elemento esiste invece ai fini della usucapione: per usucapire un bene comune il possesso deve essere incompatibile con quello degli altri comproprietari.

L'utilizzo esclusivo della cosa comune da parte del singolo compossessore non risulta sufficiente, essendo necessaria anche la dimostrazione concreta del possesso esclusivo, apertamente in contrasto con il possesso altrui.

L'onere della prova è in capo a colui il quale invoca l'avvenuta usucapione del bene comune (Trib. L'Aquila, n. 782/2020).

La Cassazione (Cass.n. 9380/2020) ha evidenziato che "Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all'usucapione e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà".

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