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La mala gestio dell'amministratore parente: quando ricorre la conseguente responsabilità

Se viene concluso un contratto di locazione dall'amministratore padre a favore del figlio occorre verificare in concreto se ricorra il conflitto di interessi.
Avv. Anna Nicola 

La fattispecie, alquanto complessa, è affrontata dal Tribunale di Brescia con la decisione n. 2883 del 30 novembre 2022.

La vicenda

Vi è una società che ha ad oggetto l'acquisto, la vendita, la permuta di beni immobili, urbani, rustici, industriali o commerciali, nonché la loro gestione ed amministrazione di detti beni. Questa società è stata costituita inizialmente da quattro fratelli, di cui uno in particolare gestiva ed amministrava due immobili in proprietà indivisa con altro fratello.

Questi viene accusato di gravi irregolarità, sulla cui base il fratello attore chiedeva ex art. 2476, 3° comma, c.c., la condanna del convenuto al risarcimento del danno cagionato alla società e alla restituzione di tutte le somme indebitamente percepite da quest'ultimo in riferimento agli utili spettanti, invece, all'odierno attore, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria;

Le doglianze

Nello specifico parte attrice lamentava di aver acquistato delle quote della società, già di proprietà della sorella deceduta, e la successiva cessione di parte di questa al fratello in violazione del diritto di prelazione; la messa in liquidazione della società con delibera assunta all'assemblea straordinaria senza qualsivoglia valutazione preliminare circa la convenienza di tale azione, con conseguente perdite a fronte della necessità di sostenere dei costi anche in fase di liquidazione senza poter concedere un immobile in locazione a terzi; l'esecuzione di lavori su un immobile e la sua successiva locazione a terzi, amministrata dal figlio del convenuto, a canone inferiore a quello di mercato e in conflitto di interessi; l'irregolarità nella gestione di uno dei due immobili in comproprietà; l'aver richiesto, a ciascun socio, la somma di euro 2.125,00 € per sostenere le spese di manutenzione straordinaria deliberate dall'assemblea condominiale dell'immobile di proprietà della società, senza convocare gli altri due soci al fine di discutere le modalità di pagamento dei lavori; l'autoliquidazione del compenso per l'attività svolta, senza previo accordo e delibera alcuna degli altri soci, compenso determinato in misura eccessiva, considerando le perdite cui era andata incontro la società.

Innumerevoli sono quindi i fatti di cattiva gestione che vengono imputati al convenuto.

Si costituivano i due fratelli e la società: i primi due domandando il rigetto delle domande attoree, la terza osservando che gli unici idonei a concretizzare atti di mala gestio dell'amministratore, con conseguente diritto della società al risarcimento del danno, fossero la stipulazione del contratto di locazione in conflitto di interessi (ove fosse dimostrata la sussistenza di un danno effettivo da ciò derivante) e l'autoliquidazione da parte dell'amministratore unico del proprio compenso (laddove risultasse accertata la circostanza e la misura del compenso fosse ritenuta eccessiva dal Tribunale), si rimetteva a giustizia.

Il Tribunale di Brescia esclude che il fratello non amministratore costituitosi in giudizio abbia qualche legittimazione alla vertenza, in ragione del fatto che mai ha gestito la società o gli immobili che ne fanno parte.

Questo è il punto di partenza.

Entra quindi nel merito della vicenda, facendo chiarezza sui tanti temi portati in causa dalle parti.

Azione di responsabilità: mancanza dei presupposti

Quanto alle domande di condanna formulate da parte attrice si osserva che queste hanno due distinti

oggetti: la richiesta di condanna dell'amministratore al risarcimento dei danni da questi cagionati alla società per atti di mala gestio (trattasi della c.d. azione sociale di responsabilità disciplinata dall'art. 2476 comma 3 c.p.c.) e, sulla base dei medesimi presupposti in fatto, la richiesta di condanna dell'amministratore "alla restituzione di tutte le somme indebitamente percepite da quest'ultimo in riferimento agli utili spettanti, invece, all'odierno attore, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria".

Questa seconda domanda non è meglio argomentata negli atti che si basano sui presupposti dell'azione sociale di responsabilità. Ove interpretata come azione di ripetizione di denaro che il convenuto ha indebitamente percepito dalla società si tratta di domanda sostanzialmente compresa nella domanda risarcitoria ex art. 2476 comma 3 cod. civ. Ove invece venga intesa come pretesa con il fine di risarcire il danno subito dall'attore si tratta di una domanda infondata perché l'attore non ha lamentato un danno diretto: si tratterebbe del classico esempio di danno indiretto in quanto mediato dal danno cagionato alla società.

Quanto al merito, come correttamente rilevato dalle convenute, molte contestazioni sollevate da parte attrice sono inconferenti rispetto all'azione risarcitoria proposta in questa sede.

L'acquisto della quota della socia deceduta e la successiva cessione di parte della stessa a altro fratello in violazione del diritto di prelazione dell'attore sono operazioni compiute nella sua qualità di socio e non nella qualità di amministratore unico. Peraltro la vicenda pare essere stata risolta con atto di transazione.

Ne è ben chiaro quale sia il comportamento inadempiente che viene imputato all'amministratore in occasione della decisione, assunta dall'assemblea dei soci, di porre volontariamente la società in stato di liquidazione.

È stata infatti l'assemblea dei soci e non l'amministratore unico, a deliberare lo stato di liquidazione della società, sicché non può censurarsi l'organo gestorio, che non aveva alcun potere di discostarsi dalla determinazione assembleare.

Le lamentele relative all'utilizzo dei fondi accantonati dai fratelli per la gestione di uno dei due immobili da loro posseduto in comproprietà e alla ripartizione dei relativi utili, attengono alla gestione di un immobile estraneo al patrimonio sociale e pertanto ininfluenti ai fini del presente giudizio.

Quanto al pagamento delle spese condominiali di pertinenza dell'immobile di proprietà della società l'attore assume la mala gestio dell'amministratore per aver chiesto ai soci. un contributo cadauno per sostenere le spese straordinarie deliberate dal condominio.

Trattasi di spese straordinarie deliberate dall'assemblea condominiale, alla quale la società non poteva sottrarsi. Non pare ravvisabile una qualche responsabilità dell'amministratore nell'aver chiesto ai soci l'erogazione di somme per permettere alla società di adempiere alle proprie obbligazioni né può sostenersi che l'amministratore fosse tenuto ad una preventiva convocazione degli altri due soci "al fine di discutere le modalità di pagamento dei lavori ut supera e non decidere da solo in modo del tutto arbitrario".

Non essendo comunque prospettato né prospettabile alcun danno per la società in conseguenza del comportamento di cui sopra ogni ulteriore disamina è superflua.

Contratto stipulato in conflitto di interessi

Il Tribunale rileva che sono conferenti e astrattamente rilevanti le censure in merito alla conclusione di un contratto di locazione avente ad oggetto un immobile della società in conflitto di interessi e a prezzo inferiore al prezzo di mercato e il prelievo, da parte dell'amministratore, di compensi non deliberati.

Sotto il primo profilo parte attrice evidenzia che, a differenza di quanto avvenuto per la precedente conduttrice, che nel 2010 corrispondeva in cannone annuo di circa euro 11.000,00, oltre alla quota di pertinenza delle spese condominiali di circa euro 1.000,00, per un onere complessivo di circa euro 12.000,00, la locazione concessa attualmente nel 2015, prevedeva un canone annuo pari ad euro 8.000,00, senza che nel medesimo contratto di locazione fossero menzionate le spese condominiali che la I. & F. Commerciale avrebbe dovuto sostenere per quanto di sua spettanza.

Rilevava inoltre che anche l'agenzia immobiliare, in riferimento alla locazione dell'immobile, con relazione del 30/08/2010, aveva previsto indicativamente un canone mensile tra euro 1.300,00 e 1.600,00, escluse le spese condominiali e rilevava altresì che, essendo stato l'immobile ristrutturato (realizzazione della contro-soffittatura nei corridoi, motorizzazione delle tapparelle, pulizia degli uffici, intervento del tecnico della caldaia a gas per la sua manutenzione e pagamento di bollette della luce e del gas e la seconda rata dell'IMU), il canone doveva essere pattuito in un importo ancora maggiore.

A replica delle osservazioni delle convenute, che avevano entrambe rilevato che il canone annuo di locazione era stato pattuito, nel 2001, in lire 15.000.000,00, corrispondenti a circa 7.746.86=€, e, quanto alla difesa dell'amministratore e del socio, che l'immobile locato a detto soggetto commerciale aveva ampiezza minore rispetto a quello in precedenza locato, rilevava che non erano state prese in considerazione la variazione istat, la pattuizione del pagamento di spese accessorie, - quali il riscaldamento, il consumo dell'acqua, la pulizia delle scale etc.,- nonché la pattuizione dell'importo trimestrale, di euro 450,00 = € a titolo di indennità di occupazione del box.

Segnalava che alla precedente conduttrice erano stati locati i medesimi locali (non ristrutturati ma con medesima estensione).

La difesa allegava altresì che il conduttore, oltre ad avere sempre corrisposto i canoni pattuiti ed essersi accollata per intero il pagamento delle spese condominiali e di quelle accessorie dipendenti all'utilizzo dei locali, aveva eseguito importanti lavori di ristrutturazione (tinteggiatura, rifacimento delle controsoffittature e degli impianti elettrici e telefonici...), i cui costi erano stati sostenuti solo in minima parte da società.

A fronte di tali allegazioni è stato disposto accertamento tecnico all'esito del quale il CTU ha quantificato il canone medio di mercato per l'immobile oggetto del contratto di cui si tratta in euro € 10.979,67 all'anno pari ad € 914,97 mensili.

Appurato quanto sopra vi è pertanto da chiedersi se il contratto di locazione in esame sia stato concluso in conflitto di interessi, con conseguente violazione dei doveri incombenti sull'amministratore, e se, a seguito di tale conclusione, la società abbia subito un danno.

Premesso che non si ha riguardo ai presupposti per l'annullamento del contratto, quanto alla violazione, da parte dell'amministratore, dei doveri di diligenza sullo stesso gravanti è noto che "i vincoli di solidarietà e la comunanza d'interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo "l'id quod plerumque accidit" ed in concorso con altri elementi (come l'inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo" (cfr. CC. ass. 15981/2007).

Nel caso in esame lo stretto vincolo di parentela (non contestato) tra il convenuto e il legale rappresentante della società (rispettivamente padre e figlio) e la conclusione di un contratto di locazione ad un canone di circa il 25% inferiore rispetto al valore medio di mercato portano a ritenere provata la conclusione del contratto in conflitto di interessi.

Parte convenuta non ha provato che non era stato possibile concludere alcun diverso contratto di locazione a condizioni più favorevoli rispetto a quelle oggetto del contratto contestato.

Tenuto conto del divario tra il canone annuale medio di mercato e il canone pattuito e tenuto conto della durata del contratto (6 anni rinnovabili, non è noto se vi sia stata disdetta) l'entità del danno subito dalla società è pari ad euro 35.756,04 da ritenersi già comprensivo di rivalutazione considerando che il contratto è ancora in essere e che la somma annua di euro 2.979,67 per le annualità già scadute dovrebbe essere astrattamente rivalutata ma per le annualità ancora a scadere dovrebbe essere attualizzata.

Trattandosi di debito di valore gli interessi legali decorrenti dalla data della domanda decorrono sull'importo di cui sopra devalutato alla data della domanda e rivalutato di anno in anno.

Prelievi non autorizzati

Quanto al prelievo di compensi in assenza di delibera i fatti sono stati riconosciuti nei termini di cui alla comparsa, è vero che dal 2011 al 2013 l'amministratore ha prelevato circa 3.400,00 Euro l'anno (ovvero meno di 300 Euro al mese!) a titolo di compensi senza che la spesa fosse stata formalmente deliberata, ma è altrettanto vero che ciò è avvenuto, col consenso dei soci uno dei quali oggi lo nega senza neanche curarsi di quantificare gli importi che però definisce esorbitanti.

Sono stati registrati in contabilità gli importi che gli erano stati riconosciuti come dovuti e di cui non è stata offerta specifica prova del prelievo di somme superiori a quelle riconosciute.

Pur in assenza di una delibera di liquidazione dei compensi dell'amministratore e pur in assenza di prova di un accordo tra tutti i soci in merito al compenso, l'attività dell'amministratore è naturalmente onerosa. L'esiguità del prelievo (meno di euro 300,00 al mese) porta a ritenerne la sostanziale congruità dello stesso secondo un giudizio di ragionevolezza.

Si osserva infatti che parte attrice mai ha lamentato l'inerzia dell'amministratore ed è evidente che l'amministratore unico di una qualsiasi società operativa deve svolgere un minimo di adempimenti gestionali e burocratici che ben possono essere compensati con la somma minima di cui sopra.

Sentenza
Scarica Trib. Brescia 30 novembre 2022 n. 2883
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