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L'impugnazione della delibera deve essere presentata al collegio arbitrale

Se il regolamento condominiale contiene una clausola arbitrale l'eventuale domanda giudiziale è da considerarsi inammissibile.
Avv. Gianfranco Di Rago 

Se il regolamento condominiale di natura contrattuale prevede che l'eventuale impugnazione delle deliberazioni assembleari debba essere decisa da un collegio arbitrale risulta inammissibile la domanda presentata in sede giudiziale. Lo ha chiarito il Tribunale di Vallo della Lucania nella recente sentenza n. 924 del 7 novembre 2023.

Fatto e decisione

Nel caso di specie un condomino aveva citato in giudizio il condominio al fine di ottenere l'annullamento di una delibera assembleare con la quale erano state approvate nuove tabelle millesimali per la ripartizione delle spese di manutenzione e gestione delle parti comuni senza una decisione all'unanimità.

Con comparsa di risposta si era quindi costituito in giudizio il condominio, il quale, preliminarmente, aveva chiesto che venisse dichiarato che l'impugnativa delle deliberazioni assembleari era di competenza del collegio arbitrale da nominarsi secondo i criteri indicati nel regolamento condominiale.

Nel merito in condominio aveva chiesto il rigetto dell'impugnazione in quanto infondata, con conseguente condanna del condomino attore al pagamento delle spese processuali.

Il Tribunale di Vallo della Lucania, in accoglimento dell'eccezione preliminare sollevata dal condominio, ha dichiarato l'inammissibilità della domanda volta all'accertamento dell'invalidità della delibera impugnata e alla dichiarazione della sua nullità e/o al suo annullamento.

Il regolamento condominiale conteneva infatti la seguente clausola: "le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini.

Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al presente statuto, ogni condomino dissenziente può fare ricorso a un collegio arbitrale…". Detta disposizione, secondo il Tribunale, era da considerarsi del tutto legittima (in quanto contenuta in un atto di valore contrattuale) e obbligava quindi i condomini a impugnare le deliberazioni assembleari dinanzi al un collegio arbitrale da costituire secondo i criteri dalla stessa indicati (circa la legittimità dell'inserimento di clausole compromissorie nei regolamenti condominiali si veda Cass. civ., 20 giugno 1983, n. 4218).

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Considerazioni conclusive

Invero la predetta clausola poteva dare adito a qualche dubbio in relazione all'utilizzo del verbo "potere". Essa andava interpretata nel senso che i condomini erano liberi di scegliere se andare in sede giudiziale o dinanzi a un arbitro oppure doveva effettivamente ritenersi che la scelta del collegio arbitrale fosse obbligatoria?

I chiarimenti forniti a tal proposito dal Giudice lucano sono molto interessanti. Quest'ultimo ha infatti annotato che il verbo "potere" inserito nella suddetta clausola era riferito alla circostanza che contro la delibera ritenuta invalida il condomino poteva presentare ricorso, non essendo certo obbligato a farlo.

Tale facoltà non poteva invece essere riferita all'individuazione del soggetto cui rivolgersi per decidere sulla legittimità della delibera eventualmente impugnata.

Tale interpretazione è stata adottata dal Giudice in conformità al principio affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 22039 del 28 ottobre 2015, con la quale la Suprema Corte aveva escluso che tale analoga espressione introducesse una mera facoltatività della nomina del collegio arbitrale, osservando che "l'impiego di un verbo modale reggente non vale a dedurre la mera facoltatività, e dunque la non obbligatorietà, dell'arbitrato quale strumento di definizione delle future controversie tra le parti… La tesi è inficiata dall'errore di fondo, di concepire l'esercizio dell'azione altrimenti che come una facoltà.

La disponibilità dell'azione comporta di necessità che il suo esercizio - sia l'azione proposta davanti al giudice, o sia essa proposta davanti ad un arbitro (e come che debba qualificarsi quest'ultimo caso) - si configuri come una mera facoltà della parte che vi ha interesse, o come un onere per conseguire la tutela giurisdizionale o arbitrale (dunque, mai come un obbligo, e meno che mai come un dovere); onere al quale corrisponde, dall'altra parte, una posizione di mera soggezione (e dunque, anche in tal caso, non propriamente di obbligo o di dovere)". "È infatti sufficiente", proseguiva la Cassazione, "tener fermo questo punto, per concluderne che in nessun caso le parti avrebbero potuto correttamente usare, per il ricorso all'arbitrato, verbi significanti dovere o obbligo, come invece si pretende con il motivo in esame.

E se questo era l'unico modo lessicalmente corretto per esprimere la volontà delle parti, di riservare a un collegio arbitrale la soluzione non negoziata della controversia, è altresì vera la proposizione reciproca; l'espressione adoperata non può avere - sul piano giuridico - se non questo significato, perché, altrimenti, non avrebbe alcun significato concorrente al regolamento dei rapporti contrattuali, limitandosi a prevedere una generica facoltà di compromettere in arbitri, che sarebbe stata loro data anche in assenza della clausola".

Sentenza
Scarica Trib. Vallo Lucania 7 novembre 2023 n. 924
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