I beni di proprietà comune tra tutti i partecipanti al condominio, e tanto a prescindere dall'eventuale godimento periodico degli stessi, sono quelli indicati dall'art. 1117 Cc, tuttavia, tale elencazione non risulta esaustiva, atteso che possono risultare comuni anche ulteriori beni, quand'anche non espressamente menzionati, in ragione delle loro caratteristiche funzionali e strutturali.
Tanto è vero che la caratteristica da prendere in considerazione al fine di stabilire la condominialità, o meno, dei beni non elencati nell'art. 1117 Cc, è quella strutturale rispetto all'edificio e, pertanto, occorre considerare il suo rapporto di dipendenza con il complesso immobiliare ovvero l'attitudine funzionale - anche solo potenziale - del medesimo bene, e ciò a prescindere dall'utilità particolare che può trarre dallo stesso il singolo condomino (Cass. n. 17556/2014).
Ai sensi dell'art. 1102 Cc tutti i partecipanti al condominio possono servirsi dei beni comuni, a patto che non ne alterino la destinazione e non ne impediscano agli altri di farne parimenti uso.
A tal fine possono anche apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.
Dal tenore letterale della norma in questione emerge come l'utilizzo della cosa comune è sottoposto a due condizioni:
a) il divieto di alterare la destinazione d'uso del bene;b) l'obbligo di garantire in ogni caso il pari utilizzo nei confronti degli altri partecipanti al condominio.
Ciò, tuttavia, non sta a significare che l'uso paritetico debba estendersi fino a configurare un identico uso, risultando sufficiente che gli altri partecipanti alla comunione siano in grado di poter soddisfare anche le potenziali loro esigenze.
In buona sostanza, nel caso di utilizzo del bene comune da parte del singolo condomino, occorre verificare se lo specifico uso possa comportare una definitiva sottrazione del bene alla disponibilità degli altri condòmini ovvero se con tale utilizzo sia rimasta invariata la destinazione principale del bene.
Conseguentemente, in caso di accertata sottrazione del bene all'utilizzo da parte degli altri condòmini, questi hanno diritto al risarcimento del danno patrimoniale per lucro cessante, atteso che lo stesso risulta in re ipsa (in se stesso) e, pertanto, non è richiesta la prova del danno in quanto è proprio il fatto che è di, per se, considerato un danno.
Viceversa, il danno non patrimoniale da impedimento all'utilizzo del bene comune, vale a dire il danno psico-fisico, deve essere rigorosamente provato dovendosi ritenere in re ipsa solo la lesione di interessi alla persona costituzionalmente protetti e quelli indicati dalla legge (art. 2059 Cc).
Questi i principi di diritto sanciti dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 17460, depositata in data 4 luglio 2018, Presidente dott. P. D'Ascola, Relatore dott. A. Scarpa.
Una condomina evocò in giudizio altri due condòmini al fine di ottenere la rimozione di una autovettura di loro proprietà abbandonata in sosta, da oltre un anno, dinnanzi alla rampa di accesso ai garage condominiali, con contestuale richiesta di risarcimento dei danni subiti per il relativo disagio, da liquidarsi secondo equità.
Il Giudice di pace di Cerignola, atteso che nelle more del giudizio l'autovettura era stata rimossa, previa estromissione dal giudizio di uno dei due condòmini convenuti, condannò l'altra a risarcire il danno quantificato equitativamente in euro 300,00.
Sull'appello proposta dalla condomina soccombente, il Tribunale di Foggia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda risarcitoria per mancanza di prova, non potendosi nel caso di specie liquidare invia equitativa un danno non concretamente dimostrato.
Propone ricorso per cassazione la condomina originaria attrice deducendo l'omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia.
La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, premette come la Corte territoriale non abbia affatto ritenuto non provato l'utilizzo abusivo dell'area comune, bensì ha evidenziato la carenza di prova in relazione ai lamentati danni non patrimoniali.
A tal proposito il Supremo Collegio ricorda come «ove sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei condomini della cosa comune in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri partecipanti, possa dirsi risarcibile, in quanto in re ipsa, il danno patrimoniale per il lucro interrotto, come quello impedito nel suo potenziale esplicarsi (cfr. Cass. Sez. 2, 07/08/2012, n. 14213; Cass. Sez. 2, 12/05/2010, n. 11486).».
Al contrario, «non è invece certamente configurabile come in re ipsa un danno non patrimoniale, inteso come disagio psico-fisico, conseguente alla mancata utilizzazione di un'area comune condominiale, potendosi ammettere il risarcimento del danno non patrimoniale solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale, oppure nei casi espressamente previsti dalla legge, ai sensi dell'art. 2059 c.c., e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile (arg. da Cass. Sez. U, 11/11/2008, n. 26972).».
Pertanto, il ricorso principale deve essere rigettato con compensazione delle spese sostenute nel giudizio di cassazione.
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STUDIO LEGALE AVV. PAOLO ACCOTI