La Corte di appello di Ancona, con la sentenza n. 2610 del 22 novembre 2018, si è pronunciata in materia di condominialità della piscina, rilevanza delle disposizioni regolamentari in tal senso e importanza della trascrizione per l'opponibilità del vincolo anche ai condòmini futuri.
Una pronuncia che, ad avviso dello scrivente, lascia qualche dubbio sia in relazione alla questione della natura della piscina - a dire il vero il pronunciamento dei giudici marchigiani non si esprime direttamente sulla questione - tanto con riferimento all'opponibilità del regolamento condominiale in relazione alla sua trascrizione.
Per quest'ultima questione non è semplicemente lo scrivente a non condividere la conclusione dei giudici del gravame anconetani (che dal testo della sentenza non pare prendere in considerazione un aspetto fondamentale, che vedremo in fine), ma è stata la Cassazione a specificare in che modo debba essere trascritto un regolamento condominiale affinché le sue clausole possano essere considerate opponibili a tutti condòmini che abbiano acquistato successivamente a tale adempimento.
Andiamo per ordine partendo dal casus belli.
Piscina condominiale, il perché dei dubbi
Dei condòmini impugnavano la delibera assembleare del condominio al quale partecipavano contestando l'invalidità della ripartizione in parti uguali delle spese condominiali. Tale modalità ripartitiva, dicevano, erano contraria ai criteri di legge e regolamento.
Il condominio si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avverso. È vero, dice la compagine nei propri atti, alcune spese erano suddivise in parti uguali, ma ciò non era contrario alla legge, bensì ossequioso delle sue disposizioni in quanto le spese afferivano ad aree verdi e piscina che dovevano essere considerati beni soggetti al regime della comunione e non del condominio.
In primo grado la domanda degli attori veniva accolta «in considerazione del fatto che la piscina e l'area verde erano espressamente considerate condominiali dal regolamento di condominio, da tutti accettato, con conseguente obbligo di ripartizione delle spese secondo le tabelle millesimali».
La distinzione tra piscina condominiale e in comunione
Il condominio non considerava accettabili le conclusioni del Tribunale e proponeva appello. Secondo la compagine appellante, infatti, ciò che diceva il regolamento in merito ai beni condominiali non poteva trovare applicazione in relazione ad aree verdi e piscina.
La piscina e altri spazi, diceva il condominio, non hanno quelle intrinseche caratteristiche di funzionalità e strumentalità rispetto al godimento dei beni in proprietà esclusiva.
Rifacendosi ad un pronunciamento della Cassazione (sent. n. 14791/2003) il condominio specificava che ove queste caratteristiche non siano proprie dei beni oggetti di proprietà comune, ciò dove i beni in comunione siano oggetto di autonomo godimento, allora questi anche se la comproprietà nasce in ragione dell'esistenza di un condominio devono essere considerati soggetti al regime della comunione in generale.
Per tornare al pomo della discordia, dunque, se la piscina non è bene in condominio ma in comunione, allora, in mancanza di differente disposizione pattizia, le spese (art. 1101 c.c.) vanno suddivise in parti uguali.
Il ragionamento, in termini teorici, ha un suo fondamento. Distinguere beni in comunione da beni in condominio è possibile anche quando c'è un coacervo di diritti su vari beni.
È l'applicabilità rispetto alla piscina, che, ad avviso dello scrivente, non convince. È vero, la piscina, a differenza delle scale, è oggetto di godimento proprio. Non si usa la piscina per entrare in casa, come si usano le scale, che hanno quella precipua destinazione. Si gode della piscina in quanto bene autonomo. Lo stesso vale per i campi da tennis, le aree verdi, ecc.
Ma perché si possono usare le aree verdi, ecc.? In quanto si è condòmini. È alla proprietà dell'unità immobiliare in condominio che è annesso il diritto di poter godere della piscina, del campo da tennis, ecc.
In un certo qual modo, dunque, una strumentalità, o meglio un'accessorietà attenuata esiste.
Piscina condominiale "in comunione", si può vendere la quota?
Così non fosse, dovremmo concludere che:
- trattandosi di comunione e non essendo soggetta questa forma di comproprietà al vincolo di indivisibilità, allora ciascun comunista/condòmino ne potrebbe chiedere lo scioglimento;
- salvo diritti di prelazione o diversa disposizione pattizia, ciascun comproprietario potrebbe cedere la sua quota, anche a soggetti estranei al condominio;
- salvo diversa disposizione pattizia, alla compravendita dell'appartamento potrebbe non fare seguire quella della quota della piscina.
Insomma, se il bene è in comunione, per quanto certamente pertinenziale rispetto al bene principale (unità immobiliare) esso potrebbe assurgere a bene autonomo e come tale circolare. A me pare una conclusione bizzarra.
Non solo: se è un bene in comunione, esso necessiterebbe di apposita delibera di approvazione delle spese e nomina dell'amministratore, poiché non è configurabile un'automatica applicazione delle norme condominiali alla comunione, se non finendo per considerare il bene in comunione un bene in condominio.
Piscina condominiale e trascrizione del regolamento, un po' di confusione
Ad ogni buon conto, la sentenza n. 2610 della Corte di Appello di Ancona ignora del tutto queste questioni e finisce per considerare dirimente ai fini della risoluzione della controversia ad essa sottoposta, la contrattualità del regolamento e la sua trascrizione.
I giudici del gravame, rifacendosi all'orientamento espresso dalla Cassazione, hanno considerato possibile la «trascrizione non solo in via autonoma del regolamento condominiale che incida sui diritti dei singoli partecipanti ma anche assieme ai primi atti di compravendita delle unità abitative, così come avvenuto nella fattispecie in esame sicché deve ritenersi l'opponibilità di quanto ivi stabilito quanto al criterio che determina la quota di proprietà di ciascun partecipante e, dunque, il conseguente criterio di ripartizione delle relative spese».
Ciò che non convince non è il principio, assolutamente consolidato e condivisibile, ma il richiamo al semplice fatto della trascrizione. Anche un atto di acquisto è integralmente trascritto, ma ciò non vuol dire che tutto il suo contenuto sia opponibile a terzi.
Fondamentale al riguardo è il contenuto della nota di trascrizione.
Proprio in relazione alla trascrizione del regolamento di condominio, infatti, la stessa Cassazione ha specificato che «l'art. 2659, comma 1, n. 2, c.c., secondo cui nella nota di trascrizione devono essere indicati il titolo di cui si richiede la trascrizione e la data del medesimo, va interpretato in collegamento con il successivo art. 2655 il quale stabilisce che l'omissione o l'inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non nuoce alla validità della trascrizione eccetto che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l'atto.
Ne consegue che dalla nota deve risultare non solo l'atto in forza del quale si domanda la trascrizione ma anche il mutamento giuridico, oggetto precipuo della trascrizione stessa, che quell'atto produce in relazione al bene.
Pertanto, in caso di regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, non basta indicare il medesimo ma occorre indicare le clausole di esso incidenti in senso limitativo sui diritti dei condomini sui beni condominiali o sui beni di proprietà esclusiva» (Cass. 31 luglio 2014, n.17493, in Guida al diritto 2014, 46, 60).
Nel caso risolto dalla sentenza in esame, non è chiaro se ciò sia avvenuto, da qui le perplessità espresse in principio sul punto.