Condominio Web: Il portale N.1 sul condominio
Iscriviti alla
Newsletter
chiudi
Inviaci un quesito

Pregare in condominio. La trasformazione dei locali condominiali in un luogo di culto

La moschea nello scantinato.
Avv. Fabrizio Plagenza - Foro di Roma 

L'argomento oggi trattato riguarda la modifica abusiva di locali condominiali e, nello specifico, nella loro trasformazione in un luogo di culto. Lo spunto nasce da una recente sentenza resa dal TAR della Lombardia, venuta alla ribalta della cronaca, per l'interesse che l'argomento continua a suscitare.

I condomini dello stabile, infatti, ormai da anni si battevano contro la moschea realizzata di fatto nel locale scantinato, senza riuscire ad ottenere la cessazione delle pratiche di culto.

Orbene, il Tar della Lombardia, definitivamente pronunciando (salvo appello), ha ribadito un principio importante anche se non nuovo: in assenza di opere edilizie, trasformare un laboratorio in un luogo di culto richiede una autorizzazione senza la quale si è davanti ad un abuso edilizio a tutti gli effetti.

I fatti di causa avevano visto, la trasformazione nel 2015 dello scantinato sito nel condominio, in luogo di preghiera da parte di una comunità islamica e, nello specifico, proveniente dallo Sri Lanka.

A seguito della scoperta della predetta trasformazione, già nel 2016 il condominio aveva chiesto ed ottenuto un provvedimento giudiziale con il quale veniva ordinata la cessazione dell'attività esercitata nello scantinato ed il ripristino dei locali all'uso originario, senza, tuttavia, che il provvedimento venisse mai rispettato.

Lo scantinato, infatti, era stato concesso in locazione formalmente allo Sri Lanka Islamica Welfare Center, ed al suo interno, nonostante il predetto provvedimento, continuavano a tenersi riunioni, attività culturali ma anche e soprattutto funzioni religiose.

Si era anche interessata la politica, formalizzando richieste al Comune affinché si intervenisse per eliminare la situazione esposta, lamentando rischi anche per la sicurezza, visto il numero di persone che si accalcavano nei locali.

Nel marzo 2018 il Comune aveva dunque emesso un ordine di demolizione delle opere edilizie realizzate senza autorizzazione ed ordinato di riportare il laboratorio alla funzione originaria.

Il provvedimento veniva impugnato innanzi al TAR competente territorialmente, dal centro islamico, sostenendo non era stata realizzata alcuna opera e che l'utilizzo a fini di preghiera era sporadico.

Nelle more del giudizio amministrativo, veniva chiusa la moschea, al fine di evitare la confisca dei locali, senza tuttavia rinunciare al ricorso amministrativo pendente che, tuttavia, si concludeva con una pronuncia che appurava definitivamente l'avvenuta trasformazione in luogo di culto ce, come tale, essendo una "variazione essenziale" è "sanzionata con l'obbligo di demolizione».

Moschee o altri luoghi di culto in un condominio. Come imporne il divieto

La questione non è certamente unica nel suo genere. Si ricorda, ad esempio, analogo provvedimento reso dal Tar del Lazio con il quale venne chiusa la moschea di Centocelle una volta accertati "abusi insanabili" e, nello specifico, un illegittimo il cambio di destinazione da laboratorio a luogo di culto posto in un garage seminterrato.

Si trattava di centro di aggregazione della comunità islamica di Centocelle sorto sin dal 1994 ma che dovette soggiacere alla decisione del Tar, secondo la quale il cambio di destinazione da laboratorio a luogo di funzione con attrezzatura religiosa, come sostenuto in prima battuta dal Comune, è illegittimo.

In quel caso, si accertava che le modifiche apportate dall'Associazione culturale islamica in Italia allo stabile andavano contro il vincolo a cui era sottoposta l'area dell'acquedotto Alessandrino.

Tutela del riposo e della tranquillità delle persone che vicino alla chiesa abitano, limitare i suoni delle campane

Nonostante il centro fosse sorto da diversi anni e fosse un centro di riferimento per la comunità islamica, la sentenza non concedeva deroghe, "a causa dell'assenza di qualsiasi titolo abilitativo per il mutamento di destinazione d'uso da laboratorio a servizi dell'immobile in questione".

La questione investe sia il cambio di destinazione d'uso delle parti comuni che l'assenza di titolo abilitativo per il mutamento di destinazione d'uso.

Quanto alla prima questione, occorre ricordare che "Per innovazioni delle cose comuni s'intendono, dunque, non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), sebbene le modifiche, le quali importino l'alterazione della entità sostanziale o il mutamento della originaria destinazione, in modo che le parti comuni, in seguito alle attività o alle opere innovative eseguite, presentino una diversa consistenza materiale, ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti" (Ex multis: Cass.,23 ottobre 1999, n. 11936; Casa., 29 ottobre 1998, n. 1389; Cass., 5 novembre 1990, n. 10602)" (così Cass. 26 maggio 2006 n. 12654).

Occorre, inoltre, far riferimento al combinato disposto di cui agli Artt. 1117-ter c.c. (in particolare 1^ comma) e 1120 c.c., 1^ comma.

Secondo l'art. 1117 ter c.c., primo comma, infatti, così recita "Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni".

A mente dell'art. 1120 c.c., primo comma, "i condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni".

La giurisprudenza di merito ha affrontato, anche recentemente, questioni relative alla possibilità prescritta in un contratto di compravendita con cui si concedeva all'acquirente di un immobile sito in un condominio di "apportare modifiche, sostituzioni, riduzioni, modifiche di destinazione d'uso e vendite delle parti comuni del Condominio" (sentenza n. 4242/2019 pubbl. il 02/05/2019 del Tribunale di Milano).

Resta inteso che, in casi di abusi, partendo dal presupposto che ai sensi degli articoli 1130 e 1131 del codice civile tra le attribuzioni dell'Amministratore rientrano sia il potere di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, sia quello di rappresentare a tal fine in giudizio il condominio, non v'è chi non veda come l'amministratore abbia il potere, non solo di accertare le violazioni del regolamento condominiale tra cui le violazioni alle destinazioni d'uso, ma anche quello di agire direttamente in giudizio senza passare per l'assemblea condominiale (Cfr.

Cassazione, sentenza n. 1956 del 29 Gennaio 2014 ove si legge: "L'azione proposta dal condominio aveva la finalità di tutelare l'integrità della cosa comune così che essa andava qualificata tra gli atti conservativi che, a mente del combinato disposto degli artt. 1130, 1 comma n. 4 e 1131, 1 comma cod. civ., l'amministratore può porre in essere senza la previa autorizzazione dell'assemblea").

Venendo poi all'assenza di titolo abilitativo per la modifica della destinazione d'uso, si rileva succintamente quanto segue. La normativa che disciplina il mutamento della destinazione d'uso di un immobile rientra nella previsione urbanistica generale delle destinazioni d'uso.

Normativa di riferimento è il testo unico, DPR 6 giugno 2001, n. 3802, che subordina al permesso di costruire gli interventi che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamento della destinazione d'uso, costituendo interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.

Sono possibili mutamenti legati all'uso di un immobile o di loro parti, purché subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (comma 2 dell'articolo 10 del Decreto n. 380/2001).

Non si dimentichi, inoltre, il necessario accertamento del rispetto delle previsioni urbanistiche comunali, delle condizioni di agibilità anche nel momento stesso i cui si realizzano nel locale opere di ordinaria o straordinaria amministrazione, o l'avvenuto rilascio da parte dei Vigili del Fuoco del certificato di prevenzione incendi o la conformità alla normativa igienico-sanitaria.

L'analisi potrebbe dirsi completa prendendo in considerazione anche il regolamento condominiale. È di tutta evidenza che un divieto alla presenza in condominio di un luogo di culto, che sia una moschea o altro, non potrà essere contenuto nel regolamento assembleare; viceversa, una limitazione in tal senso potrebbe esser disposta da un regolamento contrattuale, anche alla luce della giurisprudenza che sostiene questa tesi (cfr. Cass. n. 19229/2014; Cass. n. 21307/2016, Cass. n. 20237/2009; Cass. n. 16832/2009; Cass. n. 9564/1997; Cass. n. 1560/1995; Cass. n. 11126/1994; Cass. n. 23/2004; Cass. n. 10523/2003).

Ma la questione va altresì affrontata tenendo a mente i principi costituzionalmente garantiti e, nello specifico, avuto riguardo alla libertà di culto (art. 19 Cost.). Del resto, in particolar modo per le religioni diverse da quella cattolica, è proprio la mancanza in loco di edifici o luoghi di culto nei quali celebrare i riti, che spinge i fedeli alla ricerca di luoghi ove poter professare il proprio credo.

  1. in evidenza

Dello stesso argomento