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I divieti regolamentari devono essere determinati

In caso contrario, la disposizione deve ritenersi nulla per l'eccessiva genericità del suo oggetto.
Avv. Gianfranco Di Rago - Foro di Milano 

Le clausole del regolamento condominiale che pongono vincoli alle proprietà esclusive o all'utilizzo delle parti comuni non possono essere di contenuto generico, altrimenti vanno considerate nulle e, quindi, prive di effetti.

Questo perché il condòmino obbligato al rispetto di una tale disposizione regolamentare si troverebbe sostanzialmente privato di qualsivoglia diritto di godimento su tutte o alcune delle parti comuni dell'edificio, per di più senza che a detto sacrificio corrisponda una concreta utilità per gli altri comproprietari.

E così la clausola che vieti qualsiasi modifica o innovazione delle parti comuni è talmente generica e indeterminata da doversi ritenere nulla, perché a fronte di un ingente sacrificio richiesto a ciascun condòmino non è possibile individuare alcun interesse degno di tutela in capo alla collettività condominiale.

Questo lo spunto che si può cogliere dalla recente ordinanza n. 21478 della seconda sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, pubblicata lo scorso 27 luglio 2021.

I divieti regolamentari.

Il regolamento condominiale può contenere divieti più o meno stringenti ai diritti dei condòmini di servirsi delle cose comuni e di utilizzare le rispettive proprietà esclusive.

Infatti, secondo un consolidato orientamento di legittimità, un regolamento condominiale di natura contrattuale - ovvero redatto dall'originario costruttore dell'edificio e richiamato nei singoli atti di acquisto dei condomini oppure adottato in assemblea dalla totalità della compagine condominiale - può legittimamente apportare delle esclusioni o delle restrizioni alle facoltà che ordinariamente competono ai comproprietari sulle parti comuni, secondo il disposto di cui al noto art. 1102 c.c..

Quest'ultima disposizione non può dunque considerarsi inderogabile da parte dei condòmini, i quali, sulla base di un regolamento originario o di una delibera assembleare adottata con il consenso unanime dei partecipanti al condominio, possono rendere più rigorosi i limiti di utilizzo delle parti comuni, senza poter mai comunque giungere al risultato di un divieto generalizzato delle stesse.

Eventuali divieti contenuti in un regolamento condominiale vanno comunque interpretati alla luce dei criteri ermeneutici indicati dagli artt. 1362 ss. del Codice Civile.

Il contenuto dei divieti regolamentari.

Il diritto dei condòmini di utilizzare le parti comuni può quindi essere compresso dal regolamento condominiale, ma la clausola contenente tale limitazione deve essere sufficientemente specifica, indicando le attività che non si possono compiere.

In caso contrario, un divieto indeterminato avrebbe l'effetto di vietare qualsiasi modificazione delle parti comuni e dovrebbe pertanto considerarsi illegittimo.

La giurisprudenza di legittimità ha più volte ricordato come l'introduzione di divieti a cura dell'estensore del regolamento condominiale possa avvenire o mediante elencazione delle attività vietate o facendo riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare, mettendo quindi in risalto l'interesse condominiale che si intende preservare.

Regolamento condominiale contrattuale e clausole regolamentari

Per evitare equivoci, quindi, i divieti regolamentari devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la disposizione intende impedire e devono consentire di individuare lo scopo avuto di mira al momento della redazione del regolamento, evitando qualsivoglia incertezza.

I chiarimenti della Suprema Corte.

Nell'ordinanza in questione la seconda sezione civile della Cassazione, facendo applicazione dei predetti principi, ha quindi evidenziato la nullità della clausola regolamentare contenente il divieto fatto valere dal condominio in sede giudiziale.

Nella specie il regolamento condominiale conteneva il divieto di eseguire . qualunque modifica o innovazione alle cose comuni. senza la preventiva approvazione della maggioranza dei condomini che rappresentassero almeno i 2/3 del valore dell'edificio.

Detta disposizione, come evidenziato dai giudici di legittimità, non poteva essere considerata una semplice disposizione riproduttiva del contenuto di cui all'art. 1120, primo comma, c.c., perché quest'ultimo, nel rinviare alla disposizione dell'art. 1136, quinto comma, c.c., prevede la maggioranza dei 2/3 dei millesimi soltanto per le innovazioni da eseguire sulle parti comuni del fabbricato.

La clausola regolamentare richiamata nel caso di specie, al contrario, imponeva detta maggioranza anche per la semplice modifica delle parti comuni, introducendo quindi una limitazione più ampia rispetto al dettato normativo. La predetta clausola, come si legge nella sentenza, era quindi idonea a costituire servitù reciproche tra i diversi immobili compresi nell'edificio in condominio.

Regolamento contrattuale, criteri di riparto e clausole vessatorie.

Ma, proprio per questo motivo, una disposizione siffatta non può avere un contenuto generico o indeterminato nell'oggetto, poiché altrimenti si verrebbe a creare una servitù di non facere - ossia di non usare del bene comune - che si rivelerebbe priva di qualsiasi specificità.

In conseguenza di ciò il condòmino, o i condòmini, che fossero tenuti a osservarla si troverebbero di fatto privati di qualsiasi diritto di godimento di tutte o di alcune delle parti comuni dell'edificio condominiale, senza che a tale loro sacrificio corrisponda alcun vantaggio concreto per il resto della compagine condominiale.

Per questo motivo la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che "le pattuizioni (…) che comportino restrizioni delle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condòmini o relative alle parti comuni dell'edificio devono essere espressamente e chiaramente enunziate, atteso che il diritto del condòmino di usare, di godere e di disporre di tali beni può essere convenzionalmente limitato soltanto in virtù di negozi che pongano in essere servitù reciproche, oneri reali o, quanto meno, obbligazioni propter rem: ne consegue l'invalidità delle clausole che, con formulazione del tutto generica e inidonea, peraltro, a superare la presunzione ex art. 1117 c.c., limitano il diritto dei condòmini di usare, godere o disporre dei beni condominiali, riservando all'originario proprietario l'insindacabile diritto di apportare modifiche alle parti comuni, con conseguente intrasmissibilità di tale facoltà ai successivi acquirenti da quello" (Cass. civ., sez. II, 02 marzo 2017, n. 5336; Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1990, n. 4905).

Sentenza
Scarica Cass. 27 luglio 2021 n. 21478
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