Il regolamento può comprimere il diritto dei condomini di cui all'art. 1102 c.c. di utilizzare le parti comuni, anche modificandole per trarne un maggiore godimento, ma le limitazioni devono essere sufficientemente specifiche, non potendosi mai giungere al risultato di un divieto generalizzato.
Questo il chiarimento contenuto nella recente sentenza n. 651 della sezione terza civile della Corte di Appello di Milano, pubblicata lo scorso 26 febbraio 2020.
Controversia sull'apertura di una nuova porta nel pianerottolo condominiale
Nella specie una condomina aveva impugnato la deliberazione assembleare con la quale era stata respinta la sua richiesta di aprire sul pianerottolo una nuova porta di ingresso a servizio del proprio appartamento.
La stessa, richiamandosi principalmente al disposto di cui all'art. 1102 c.c., aveva infatti evidenziato come la nuova apertura prospettata all'assemblea costituisse una semplice modificazione di una parte comune, che non ne alterava la destinazione, non metteva a rischio la stabilità dell'edificio, non recava pregiudizio al decoro architettonico e non impediva agli altri condomini di continuare a fare uso del bene comune.
Il condominio, nel costituirsi in giudizio, aveva quindi difeso a spada tratta la legittimità della predetta deliberazione, evidenziando in particolare come la stessa avesse fatto applicazione di una disposizione del regolamento condominiale (contrattuale), la quale vietava ai condomini, tra le altre cose, di apportare modifiche che potessero avere un qualsivoglia effetto sui muri perimetrali e, in genere, sui muri portanti dello stabile.
Il Tribunale, ritenendo che in tale divieto regolamentare dovesse rientrare anche l'apertura di nuove porte sul pianerottolo e che tale disposizione derogasse legittimamente alla disciplina di cui all'art. 1102 c.c., aveva rigettato l'impugnazione.
Di qui la proposizione dell'appello da parte della condomina, la quale aveva proprio contestato che tale disposizione codicistica fosse derogabile da un regolamento condominiale, per quanto di natura contrattuale, anche in considerazione della genericità del divieto in questione, talmente ampio da doversi considerare nullo.
Diritti di utilizzo delle parti comuni nel condominio
L'art. 1102 del codice civile stabilisce che "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare, a proprie spese, le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa".
La norma in questione - dettata in materia di comunione ma applicabile anche al condominio per via del rimando operato dall'art. 1139 c.c. - intende assicurare al singolo comproprietario, per quel che concerne l'esercizio del suo diritto, la maggiore possibilità di godimento dei beni comuni, nel senso che, nel rispetto dei limiti posta dalla medesima disposizione, questi è libero di servirsi di essi anche per fini esclusivamente personali, traendone ogni possibile utilità.
L'uso del bene comune da parte di un condomino non deve però determinare pregiudizio al diritto di pari uso di cui sono titolari gli altri comproprietari. Cosa, ovviamente, più facile a dirsi che a farsi.
Ecco allora che qualora l'utilizzo del bene comune che vorrebbe fare uno dei condomini venga a interferire con l'uso già praticato sul medesimo bene da parte di un altro comproprietario, non resta che cercare di individuare una soluzione pratica che consenta di conciliare gli interessi contrastanti.
Come detto, occorre anche vigilare perché non venga alterata la destinazione (finalità) del bene comune, poiché il maggiore utilizzo che il condomino voglia farne è da ritenersi lecito a condizione che lo stesso possa continuare a svolgere la funzione che gli è propria nell'interesse di tutti gli altri comproprietari.
Conferma della legittimità del divieto regolamentare sulle modifiche strutturali
Nel procedimento di appello la condomina aveva ribadito che l'apertura di un nuovo ingresso all'altezza del pianerottolo e nel muro che separava quest'ultimo dal proprio appartamento veniva incontro alla propria esigenza di sdoppiare l'unità immobiliare per una sua maggiore comodità, ad esempio per poterla destinare in futuro a un proprio familiare o a una collaboratrice domestica di cui avesse potuto avere necessità per la cura della propria persona, senza che nel contempo venissero sacrificati gli interessi degli altri comproprietari.
Il muro in questione avrebbe infatti continuato a svolgere la sua funzione divisoria e portante, né nel corso del giudizio di primo grado il condominio aveva saputo indicare in che modo detta opera avrebbe potuto impedire agli altri condomini di continuare a usare del bene comune come avvenuto fino a quel momento.
Inoltre, come anticipato, la stessa aveva contestato la decisione del Tribunale di Milano, che aveva ritenuto che il diritto del condomino di fare un uso più inteso del bene comune fosse derogabile da un regolamento condominiale di natura contrattuale, soprattutto in considerazione della genericità del divieto ivi contenuto.
Proprio di questo aspetto si è occupata la Corte di Appello, che ha tuttavia rigettato le argomentazioni della condomina, confermando quindi la sentenza di primo grado. I giudici hanno infatti ribadito l'ormai consolidato orientamento di legittimità secondo il quale un regolamento condominiale di natura contrattuale - ovvero redatto dall'originario costruttore dell'edificio e richiamato nei singoli atti di acquisto dei condomini oppure adottato in assemblea dalla totalità della compagine condominiale - può legittimamente apportare delle esclusioni o delle restrizioni alle facoltà che ordinariamente competono ai comproprietari sulle parti comuni, secondo il disposto di cui al richiamato art. 1102 c.c..
Quest'ultima norma non può dunque considerarsi inderogabile da parte dei comproprietari, i quali, sulla base di un regolamento originario o di una delibera assembleare adottata con il consenso unanime dei partecipanti al condominio, possono rendere più rigorosi i limiti di utilizzo delle parti comuni, senza poter mai comunque giungere al risultato di un divieto generalizzato delle stesse (si veda Cass. civ., 29 gennaio 2018, n. 2114).
Il diritto del condomino di utilizzare le parti comuni può quindi essere compresso dal regolamento ma la relativa clausola deve essere sufficientemente specifica, indicando le attività che non si possono compiere. In caso contrario, un divieto indeterminato avrebbe l'effetto di vietare qualsiasi modificazione delle parti comuni e dovrebbe pertanto considerarsi illegittimo.
Per questo motivo i giudici di appello, ribadito il predetto principio di diritto, hanno verificato anche il contenuto del menzionato divieto regolamentare, giudicato dalla condomina eccessivamente generico. Ma l'esame della Corte di Appello è pervenuto a un giudizio diverso.
Dalla documentazione in atti è infatti emerso che la clausola contestata era contenuta nell'ambito di un più ampio articolato che riguardava i divieti imposti ai condomini, elencati e dettagliati in ben 31 punti.
Secondo i giudici il divieto regolamentare di "apportare modifiche che possano avere un qualsiasi effetto sulle strutture in cemento armato, sui muri perimetrali e in genere sui muri portanti dello stabile ovvero su parti comuni" si riferiva chiaramente a ogni opera che, pur non alterando l'essenza del bene comune o il suo aspetto funzionale, comportasse un'alterazione dello stato di fatto che i condomini, viceversa, avevano appunto inteso preservare.
La clausola regolamentare, da questo punto di vista, era quindi da ritenersi sufficientemente specifica.
Ma la Corte si è anche chiesta se nel caso di specie la modificazione della parte comune avuta di mira dalla condomina comportasse un'alterazione giuridicamente apprezzabile allo stato di fatto dello stabile condominiale e potesse dunque ritenersi vietata.
Anche in questo caso la risposta dei giudici è stata positiva, in quanto "è evidente che un varco sul pianerottolo sia un'opera di per sé significativa ed apprezzabile sia per la sua visibilità che per il suo uso".
Inoltre si è ritenuto che l'ampio riferimento operato dalla clausola regolamentare alle "strutture in cemento armato", ai "muri perimetrali" e ai "muri portanti " rendesse inequivocabile la volontà unanime dei condomini di evitare modificazioni ai muri dello stabile, comprendendo in essi tanto i muri perimetrali (che, secondo la definizione accolta dalla Cassazione, delimitano la superficie coperta dell'edificio unitariamente considerato e la sua consistenza volumetrica, delineandone la sagoma architettonica) quanto quelli che, benché non perimetrali, avessero funzione strutturale e portante nel complesso del fabbricato.
- Opponibilità del regolamento contrattuale
- Regolamento di condominio. Natura assembleare o natura contrattuale. Contenuto delle clausole. Divieti, limiti e quorum deliberativi.