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Trasformazione un balcone in finestra non vuol dire automatica rinuncia alla veduta

Per la Cassazione la richiesta di concessione edilizia può integrare una valida manifestazione di rinuncia, ma dall'atto deve emergere una chiara volontà abdicativa.
Dott.ssa Lucia Izzo 

Si parla di servitù di veduta per identificare quel diritto per il proprietario di un fondo dominante di affacciarsi e godere della vista dalla propria abitazione su un fondo vicino a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dagli artt. 905-907 del codice civile.

Di norma, qualora sia aperta una veduta nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge, si realizza quello un diritto di veduta "jure proprietatis", che si giustifica in ragione del diritto di proprietà e rappresenta una facoltà normalmente rientrante in tale diritto.

L'apertura della veduta "jure servitutis", invece, è in grado di derogare alle distanze fissate dalla legge e a tradursi in un "peso" gravante sul fondo del vicino e in una corrispettiva utilità per il fondo dominante, quello da cui la veduta viene esercitata.

Rinuncia alla servitù di veduta

Quanto alle cause di estinzione della servitù di veduta, devono richiamarsi richiamate quelle tipiche previste dal codice civile per tutte le servitù, tra cui quella della c.d. rinuncia, tradizionalmente descritta come un atto avente natura unilaterale con effetto puramente abdicativo.

Per espressa disposizione di legge si richiede una manifestazione in forma scritta, a pena di nullità (art. 1350, comma 1, n. 5, c.c.), mentre non sembrano richieste particolari formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà di rinunziare al diritto risulti in modo inequivoco.

Anzi, si ammette che la rinuncia possa risultare anche implicitamente purché da un atto avente forma scritta incompatibile con la volontà di mantenere la servitù di veduta; al contrario, non si ritiene possibile una rinuncia "tacita", ovvero desumibile da fatti concludenti.

Nella recente sentenza n. 20540 pubblicata il 29 settembre 2020, la Corte di Cassazione ha ribadito la necessità che, affinché la rinuncia si ritenga perfezionata, dall'atto dovrà emergere una chiara volontà adicativa.

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La vicenda esaminata dagli Ermellini trae origine dall'istanza della proprietaria di un immobile, confinante con un cortile in comproprietà con i convenuti.

L'attrice aveva chiesto al giudice di accertare il diritto al ripristino della veduta diretta che, dal vano posto al primo piano, dava sul cortile (con l'apposizione di una ringhiera sulla soglia del balcone) e alla riapertura del vano porta che dal terraneo consentiva l'accesso al medesimo cortile (previa ricollocazione del precedente infisso con apertura verso l'interno).

I convenuti, invece, eccepivano l'estinzione del diritto di veduta per intervenuta rinuncia. Nel dettaglio, i comproprietari del fondo, sostengono che tale rinuncia sarebbe stata implicita in una richiesta di concessione edilizia e in una comunicazione inoltrata al Comune molti anni addietro (precisamente nel 1990).

Dai grafici consegnati al C.T.U. dal consulente di parte risultava l'esecuzione di una modifica dello stato dei luoghi e incompatibile con la servitù, posta in essere da epoca anteriore alla stessa comunicazione di inizio lavori del 1990. Il diritto, secondo i convenuti, doveva comunque ritenersi estinto per non uso.

Necessaria una chiara volontà abdicativa

Una conclusione che non trova il supporto dei magistrati. In particolare già la Corte d'Appello aveva escluso la sussistenza di una rinuncia alla servitù.

Ciò in quanto non era stato dimostrato dai comproprietari che le opere per le quali era stata presentata una richiesta di concessione edilizia fossero proprio quelle risultanti dai grafici prodotti in giudizio dai ricorrenti stessi (e che avrebbero comportato la chiusura delle aperture). Inoltre, neppure la servitù poteva ritenersi estinta per non uso ventennale.

La Corte di Cassazione conferma tale decisione. Gli Ermellini, in prima battuta, rammentano (cfr. sent. n. 10457/2011) come anche la presentazione di una richiesta di concessione edilizia possa effettivamente integrare una valida manifestazione di rinuncia ad un diritto immobiliare.

Ciononostante, nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto carente la sottoscrizione da parte della proprietaria di un atto di contenuto tale da evidenziare una volontà abdicativa. Infatti, l'istanza presentata al Comune nel 1990 non conteneva alcuna menzione della trasformazione del balcone in due finestre o della chiusura delle aperture preesistenti.

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Gli Ermellini non ravvisano alcuna insuperabile illogicità nella sentenza impugnata laddove, pur dando atto del deposito della comunicazione del 1990, ha contestualmente negato ogni correlazione con quanto risultante dai grafici.

Questo perché non era stato possibile dimostrare che i grafici depositati dal consulente di parte si riferissero ai lavori intrapresi nel 1990 o che attestassero la chiusura delle aperture da epoca anteriore al ventennio.

Si ritiene dunque che Corte distrettuale abbia evidenziato in modo logico le ragioni che, a suo giudizio, deponevano nel senso di escludere il perfezionamento di una rinuncia alla servitù, conclusione cui è pervenuta sulla base degli elementi indicati.

Tra l'altro, la Cassazione ribadisce come, in ogni caso, l'accertamento in merito all'idoneità della richiesta di concessione edilizia a integrare una rinuncia al diritto di servitù costituisca tipico accertamento del giudice di merito, che, nel caso in esame, resta incensurabile in quanto adeguatamente motivato.

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