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Per sua natura il cortile è sempre da considerarsi condominiale?

Con sentenza in disamina la Corte di Cassazione approfondisce alcuni aspetti inerenti la presunzione di condominialità con riferimento all'area cortile.
Avv. Nicola Frivoli 

Con sentenza emessa in data 28 ottobre 2022, n. 31995, la Corte di Cassazione, Sezione II, si è pronunciata su quattro motivi di censura in virtù dell'azione intentata da diversi condomini volta ad accertare la proprietà condominiale relativa ad uno spazio da destinarsi a parcheggio, ex art. 1117 c.c., inerente un'area circostante l'unità immobiliare (cortile) posta al piano rialzato di proprietà esclusiva di un altro condomino (costruttore del fabbricato), nonché l'eliminazione di una finestra e di altri manufatti realizzati sempre dal costruttore, proprietario altresì di distinto immobile non compreso nel condominio ma confinante con l'area in contesa. Si costituiva il convenuto, ritenendo l'assunto delle controparti del tutto infondato.

Il Tribunale di Palermo rigettava le domande proposte dagli attori, con pronuncia del 14 agosto 2010. Avverso tale sentenza veniva proposto impugnativa innanzi alla Corte d'appello di Palermo, che con pronuncia del 26.10.2016, n. 1976, rigettava il gravame.

L'accertamento della proprietà condominiale del cortile: vicenda

La Corte territoriale aveva ritenuto che non avrebbe avuto senso alcuno l'inserimento nei titoli di proprietà degli appellanti di una riserva d'uso in favore del costruttore, proprio perché ne era proprietario in via esclusiva.

La sentenza impugnata aveva poi negato la natura di veduta, ai fini dell'applicazione della disciplina sulle distanze, all'apertura realizzata sul muro dell'edificio a confine con l'area destinata a parcheggio.

Ancora, la Corte d'appello aveva ritenuto legittime la tettoia e la grondaia realizzate nella proprietà dell'appellato con funzione di riparazione dall'acqua.

Avverso detta sentenza ricorrevano per cassazione i condomini-appellanti, sulla base di quattro motivi. L'intimato costruttore resisteva con controricorso.

I motivi del ricorso

Con il primo motivo, i ricorrenti denunciavano la violazione degli artt. 2697, 1117 e 840 c.c. quanto all'accertamento della proprietà della corte circostante la proprietà del costruttore, bene che si presumeva condominiale salvo prova di titolo contrario.

Con il secondo motivo, i ricorrenti deducevano la violazione degli artt. 887, 902 e 903 c.c., nonché dell'art. 113 c.c., quanto al rigetto della domanda di eliminazione della veduta realizzata sull'edificio di proprietà del costruttore a confine con il parcheggio condominiale.

Con terzo motivo, di ricorso denunciavano la violazione dell'art. 115 c.p.c. in ordine al rigetto della domanda di arretramento della tettoia e della pensilina invadenti lo spazio sovrastante il parcheggio condominiale per una estensione di cm. 50. Si trattava, come riferito dal CTU, di tettoia su cui cadono le acque piovane.

Con il quarto motivo di ricorso deducevano la violazione degli artt. 949, comma 2, 840, comma 2, e 1065 c.c., nonché dell'art. 113 c.p.c., sempre con riguardo al rigetto della domanda di arretramento della tettoia asservita alla terrazza del primo piano della proprietà del costruttore e di eliminazione della tettoia ancorata alla sottostante veduta.

La Suprema Corte riteneva fondati il primo, secondo e quarto motivo di censura e rigettava il terzo motivo.

Principio in diritto: accezione di cortile inteso come parte comune.

Con riferimento al primo motivo di censure, gli ermellini rilevano che la Corte siciliana aveva fatto cattiva applicazione sia dell'art. 1117 c.c. che dell'art. 2697 c.c. Precisavano che per cortile, ai fini dell'inclusione nelle parti comuni dell'edificio elencate dall'art. 1117 c.c., è da intendersi qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l'accesso, o sia destinata a spazi verdi, zone di rispetto, parcheggio di autovetture (in tal senso, Cass. civ. Sez. II, 08 settembre 2021, n. 24189; Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 2020, n. 3852; Cass. civ. Sez. II, 15 febbraio 2018, n. 3739; Cass. civ. Sez. II, 02 agosto 2010, n. 17993; Cass. Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14559; Cass. civ. Sez. II, 29 ottobre 2003, n. 16241).

Tra l'altro anche pure le aree da destinare obbligatoriamente ad appositi spazi a parcheggi, ai sensi della speciale normativa urbanistica dettata dall'art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 18 della l. n. 765 del 1967, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell'edificio condominiale ai sensi dell'art. 1117 c.c., come peraltro risulta testualmente dallo stesso articolo successivamente all'entrata in vigore della l. n. 220 del 2012 (vedi Cass. civ. Sez. VI - II, 10 settembre 2020, n. 18796; Cass. civ. Sez. II, 14 giugno 2019, n. 16070).

In particolare, i condomini hanno diritto a servirsi del cortile anche per il maggior vantaggio delle rispettive unità immobiliari di proprietà individuale, ma con le limitazioni poste dall'art. 1102 c.c., ovvero il divieto di alterarne la destinazione e l'obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini.

La presunzione di condominialità

La presunzione legale di comunione, stabilita dall'art. 1117 c.c., si reputa inoltre operante anche nel caso di cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi ed autonomi, tra loro non collegati da unitarietà condominiale (così, ad esempio, Cass. civ. Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14559; Cass. civ. Sez. II, 24 maggio 1972, n. 1619).

La presunzione legale di proprietà comune di parti del complesso immobiliare in condominio, che si sostanzia sia nella destinazione all'uso comune della res, sia nell'attitudine oggettiva al godimento collettivo (sulla base di una valutazione da compiere nel momento in cui ha luogo la formazione del condominio per effetto del frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali), dispensa, quindi, il condominio dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica.

Ai condomini che agiscono in rivendica di parti comuni riconducibili all'art. 1117 c.c. basta dimostrare la rispettiva proprietà esclusiva nell'ambito del condominio per provare anche la comproprietà di quei beni che tale norma contempla.

Come vincere la presunzione legale di proprietà comune

Ne deriva che quando un condomino pretenda l'appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell'art. 1117 c.c., è onere dello stesso condomino, onde vincere detta presunzione, dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il proprio titolo di acquisto, o quello del relativo proprio dante causa, ove non si tratti dell'atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall'iniziale unico proprietario che non si fosse riservato l'esclusiva titolarità dell'area (Cass. civ. Sez. II, 17 febbraio 2020, n. 3852).

Erroneo convincimento della Corte territoriale

La Cassazione ha, altresì, precisato Corte d'appello competente ha affermato che non avrebbe avuto senso alcuno l'inserimento nei titoli di proprietà degli appellanti di una riserva d'uso in favore del costruttore, proprio perché ne era proprietario esclusiva, apparendo decisiva ai giudici di appello la circostanza che negli stessi contratti di acquisto le unità immobiliari degli appellanti erano definite come confinanti con la proprietà del costruttore. Tale conclusione si rivela erronea.

L'individuazione delle parti comuni di un condominio edificio, come appunto i cortili, risultanti dall'art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (cfr. Cass. Sez. Unite, 07 luglio 1993, n. 7449).

Era decisivo accertare, mediante apposito apprezzamento di fatto, l'eventuale obiettiva destinazione primaria del cortile di causa a dare aria, luce ed accesso al servizio esclusivo della unità immobiliare di proprietà del costruttore.

Caratteristica dell'accessorietà

Ciò non è stato fatto anche dal giudice di prime cure, che avrebbe perciò dovuto compiere, per dire applicabile, o meno, la disciplina del condominio degli edifici, di cui agli artt. 1117 c.c. e ss., concernente la relazione di accessorietà necessaria che, al momento della formazione del condominio, legava il bene in contesa (inserito tra le parti comuni - se il contrario non risulta dal titolo - dall'art. 1117 c.c.) alla individuata porzione di proprietà singola.

Infatti, è indiscutibile che, affinché un singolo condomino possa presumersi comproprietario di una determinata parte comune di un edificio condominiale, è necessario che, all'atto della costituzione del condominio, sussistesse un rapporto di accessorietà, di tipo strutturale e funzionale, tra tale parte comune e la singola, distinta, unità immobiliare, nella sua originaria conformazione (poi pervenuta al detto condomino), di modo che possa venirsi a configurare l'idoneità, anche se non esteriorizzatasi, della prima ad essere utilizzata in funzione del godimento della seconda.

Diviene, perciò, consequenziale ritenere che la suddetta presunzione (di condominialità) non opera nel momento in cui l'indicata relazione attitudinale non esisteva al momento del frazionamento dell'edificio in proprietà diverse e si sia venuta a realizzare solo successivamente per effetto della trasformazione apportata alla porzione immobiliare di proprietà singola (Cass. civ. Sez. II, 19 agosto 2022, n. 24976).

Il terzo e quarto motivo di censura venivano dichiarati fondati dalla Suprema Corte ed esaminati congiuntamente.

La tettoria e la grondaia: servitù di stillicidio

Infatti, Corte di cassazione, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto della domanda definita e dei fatti comunque accertati nelle fasi di merito, per come esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, riteneva fondata la questione sollevata nel terzo e nel quarto motivo con riferimento alla disciplina posta dall'art. 908 c.c., norma diversa da quelle specificamente indicate dai ricorrenti, afferente la tettoia e la piccola grondaia realizzate nella proprietà del costruttore.

La Corte siciliana aveva violato il disposto dell'art. 908 c.c., il quale impone al proprietario dell'edificio l'obbligo di costruire i tetti in maniera tale che le acque pluviali scolino nel suo terreno e non nei fondi finitimi, escludendo la configurabilità di un limite legale della proprietà analogo a quello previsto dal successivo art. 913, che disciplina il deflusso delle acque che scolano naturalmente.

Pertanto, una deroga alla disciplina contenuta nell'art. 908 c.c., come quella che nel caso di specie si ha per realizzata a mezzo dello scolo di acqua piovana nel fondo di proprietà condominiale conseguente alla costruzione di una tettoia sporgente sullo spazio aereo di quest'ultimo, può trovare il suo fondamento unicamente nella costituzione di una servitù di stillicidio e di sporto, la quale, facendo venire meno il limite legale della proprietà imposto dalla norma in oggetto, consenta tale scolo e l'immissione nel fondo.

Apertura ed affaccio: requisiti

Per completezza la Suprema Corte ha rigettato il secondo motivo di censura relativo a stabilire se un'apertura abbia i requisiti necessari per consentire un comodo e normale affaccio sul fondo del vicino, e se in particolare, l'inferriata apposta per garantire la sicurezza e la grata di cui essa sia eventualmente munita, nonché l'altezza del lato inferiore, ai sensi dell'art. 901 c.c., escludano, per la collocazione, per l'ampiezza delle maglie e per ogni altra caratteristica, tale possibilità, si risolve in un apprezzamento di fatto che sfugge al sindacato di legittimità per violazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

Va osservato che la Corte d'appello abbia, nella sostanza, preso atto che l'apertura realizzata sull'edificio di proprietà costruttore fosse priva dei requisiti prescritti per le luci ("nonostante l'altezza di tale apertura rispetto al pavimento interno…"), affermando che era però necessario chiederne la "regolarizzazione" e "non la chiusura" in quanto veduta diretta, come prospettato dagli attori.

In conclusione, la Corte accoglieva il primo, terzo e quarto motivo del ricorso, rigettava il secondo motivo, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Palermo in diversa composizione.

Sentenza
Scarica Cass. 28 ottobre 2022 n. 31995
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