Nelle assemblee capita sempre più spesso di assistere ad animate discussioni circa la possibilità o meno che i condomini presenti procedano alla registrazione audio della riunione.
Questi ultimi, il più delle volte desiderosi di precostituirsi una prova del reale andamento dei lavori assembleari nell'ottica di una eventuale contestazione di quanto risulterà dal relativo verbale, possono infatti essere portati a registrare la riunione anche senza avvertire gli altri partecipanti o nonostante il divieto da questi frapposto.
Detto comportamento deve considerarsi lecito? E la riproduzione audio dell'assemblea può essere legittimamente prodotta in giudizio, ad esempio nel caso di impugnazione di una delibera?
Per rispondere a queste domande occorre preliminarmente evidenziare come sia ormai un dato pacificamente acquisito, anche nella giurisprudenza di legittimità, il fatto che chi partecipa a una conversazione con uno o più soggetti possa registrarne il contenuto, anche senza il consenso dei propri interlocutori.
Il principio di cui sopra è stato in un certo senso codificato dalle Sezioni Unite Penali della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 24 settembre 2003, n. 36747, nella quale è stato chiarito che "deve escludersi che possa essere ricondotta nel concetto d'intercettazione la registrazione di un colloquio, svoltosi a viva voce o per mezzo di uno strumento di trasmissione, ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi.
Difettano, in questa ipotesi, la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del captante.
La comunicazione, una volta che si è liberamente e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti ad essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l'effetto che ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare qualità rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano specifici divieti alla divulgazione (es.: segreto d'ufficio).
Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione, per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi prova di ciò che, nel corso di una conversazione, direttamente pone in essere o che è posto in essere nei suoi confronti; in altre parole, con la registrazione, il soggetto interessato non fa altro che memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese dall'altro o dagli altri interlocutori".
La successiva giurisprudenza penale di legittimità ha quindi sempre confermato tale principio di diritto (si vedano: Cass. pen., sez. IV, 31 ottobre 2007, n. 40332; Cass. pen, sez. I, 16 febbraio 2010, n. 6297; Cass. pen., sez. I, 8 febbraio 2013, n. 6339; Cass. pen., sez. V, 2 febbraio 2016, n. 4287; Cass. pen., sez. II, 26 gennaio 2017, n. 3851; Cass. pen., sez. V, 11 febbraio 2019, 13810).
Anche la giurisprudenza civile di legittimità ha integralmente confermato il principio di cui sopra (si vedano: Cass. civ., sez. II, 11 dicembre 1993, 12206; Cass. civ., sez. III, 11 settembre 1996, 8219; Cass. civ., sez. VI, 1 marzo 2017, 5259; Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2018, n. 1250).
Il problema riguarda, piuttosto, l'utilizzo che il soggetto che abbia registrato la conversazione voglia fare del materiale in tal modo legittimamente acquisito. Di sicuro è possibile utilizzarlo per difendere un proprio diritto in sede giudiziaria.
Anche detta questione è stata infatti affrontata e risolta dalla richiamata sentenza n. 36747/2003 delle Sezioni Unite Penali della Suprema Corte di Cassazione, nella quale appunto viene spiegato che non può "fondatamente sostenersi che la divulgazione del contenuto del colloquio da parte di chi lo ha registrato sarebbe inibita dall'art. 15 Cost., posto che il diritto alla riservatezza, non atteggiandosi, in questo caso, come componente essenziale del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni, non si pone come valore costituzionalmente protetto e, ove non risulti neppure assicurato da specifiche previsioni della legge ordinaria, cede di fronte all'esigenza di formazione e di conservazione di un mezzo di prova.
Il diritto alla riservatezza - come si è detto - non vive nell'ordinamento sulla base di una previsione generalizzata, ma è il legislatore che di volta in volta ne dispone la genesi e la tutela.
Il Costituente si è semplicemente preoccupato di garantire gli interlocutori dalla arbitraria e fraudolenta intrusione di terzi. Esauritosi il rapporto tra il comunicante ed il destinatario, residua solo un fenomeno di diffusione della notizia da parte di chi legittimamente l'ha acquisita, il quale potrà, salvo che una specifica norma dell'ordinamento gliene faccia divieto, comunicare a terzi la notizia ricevuta e, più specificamente, nell'ambito del processo, potrà deporre come testimone su quanto gli è stato riferito e/o consegnare il nastro registrato".
Anche il c.d. Codice Privacy, di cui al D.lgs. 196/2003, nella versione precedente alle recenti modifiche rese necessarie dall'entrata in vigore della normativa europea di cui al c.d.
(Regolamento UE n. 2016/679), aveva indirettamente confermato i predetti principi, in quanto la disciplina per il trattamento dei dati personali era stata espressamente qualificata come non applicabile ai trattamenti effettuati da persone fisiche per fini esclusivamente personali, salvo che i dati fossero destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione (art. 5, comma 3).
Quanto sopra era stato a sua volta confermato dalla Suprema Corte, come emerge con chiarezza dalla sentenza della sezione terza penale, 13 maggio 2011, n. 18908, nella quale viene spiegato che nell'applicare la disciplina di cui al D.Lgs 196/2003 occorre tenere conto: "anche della disposizione di cui all'art. 5, che fissa l'oggetto e l'ambito di applicazione della disciplina dettata dal testo unico. L'art. 5, comma 3, infatti, prevede che il trattamento (e quindi la comunicazione) di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all'applicazione delle disposizioni di cui al T.U., solo se i dati sono destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione.
Pertanto, quando si tratta di persona fisica che effettua il trattamento per fini esclusivamente personali, il soggetto è tenuto a rispettare le disposizioni del T.U., ivi comprese quelle in tema di obbligo di consenso espresso dell'interessato per il trattamento, solo quando i dati raccolti e trattati sono destinati alla comunicazione sistematica e alla diffusione.
In altri termini, non è illecito registrare una conversazione perché chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui".
Del predetto principio si trova poi ulteriore conferma anche nel citato Regolamento UE n. 2016/679, entrato in vigore in Italia lo scorso 25/05/2018. La normativa comunitaria sul trattamento dei dati personali, infatti, non è a sua volta applicabile ai trattamenti "effettuati da una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere esclusivamente personale" (art. 2, comma 2, lett. c)), ossia per attività "senza una connessione con un'attività commerciale o professionale" (considerando n. 18 del relativo Preambolo).
Si evidenzia ulteriormente come il trattamento dei dati personali non necessitasse comunque del consenso dell'interessato sotto la vigenza del "vecchio" Codice privacy, allorché esso fosse finalizzato "a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria" (art. 24, comma 1, lett. f), D.Lgs. 196/2003), e non ne necessiti tuttora, quando il trattamento "è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali" (art. 6, comma 1, lett. f), GDPR).
Le considerazioni di cui sopra valgono quindi a escludere l'illiceità della registrazione audio dell'assemblea condominiale operata dal condomino, presente alla riunione, laddove il medesimo agisca al solo scopo di precostituirsi una prova per una eventuale e futura impugnazione delle deliberazioni adottate in tale sede.
Ma le stesse conclusioni valgono anche per la videoregistrazione? A questo proposito appare anche utile richiamare il provvedimento generale reso dal Garante per la protezione dei dati personali in data 18 maggio 2006 (pubblicato sulla G.U. del 3 Luglio 2006), nel quale sono state affrontate le principali problematiche emerse in relazione all'applicazione in ambito condominiale della normativa in materia di privacy.
Circa la gestione dell'assemblea, l'Authority nel predetto provvedimento ha infatti evidenziato quanto segue: "(…) salva la presenza di una causa giustificatrice (quale il consenso dell'interessato o uno degli altri presupposti previsti all'art. 24 del Codice), è illecita la comunicazione a terzi di dati personali riferiti ai partecipanti: ciò potrebbe avvenire, ad esempio, mettendo a disposizione di terzi dati personali riportati nei prospetti contabili o dei verbali assembleari o, ancora, consentendo la presenza in assemblea - il cui svolgimento è suscettibile di videoregistrazione in presenza del consenso informato dei partecipanti - di soggetti non legittimati a parteciparvi".
Il Garante, per quanto in via incidentale, ha quindi affermato che la videoregistrazione dell'assemblea condominiale è possibile soltanto con il consenso informato di tutti i partecipanti, mentre non ha preso in considerazione la fonoregistrazione. Il perché di questa differenza fra le due tipologie di trattamento è presto spiegata.
La videoregistrazione è uno strumento a ragione considerato dall'Authority molto più invasivo rispetto ad altre forme di trattamento dei dati personali, tanto è vero che la c.d. videosorveglianza è stata oggetto di due specifici e successivi provvedimenti generali (il primo del 29 Aprile 2004 e il secondo dell'8 Aprile 2010).
La audio e/o video registrazione dei lavori assembleari, una volta legittimamente acquisita, potrà quindi essere prodotta in eventuale giudizio avviato contro il condominio a sostegno delle tesi del condomino attore. In caso contrario, ove manchi qualcuna delle condizioni che rendono legittima tale acquisizione, detta produzione sarà inutilizzabile in sede processuale.