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Il cambio di destinazione d'uso non impedisce di ottenere la certificazione di prevenzione incendi

Certificazione di prevenzione incendi, non è rilevante il fatto che vi sia comunicazione tra locali diversi.
Avv. Maurizio Tarantino 

Al fine di un'autorizzazione da parte dei Vigili del Fuoco, non rileva il fatto che vi sia comunicazione tra locali diversi (autorimessa e uffici).

"La norma dell'art 1122 cod. civ., che nel vietare a ciascun condomino di eseguire opere sulla sua proprietà esclusiva che rechino danno alle parti comuni per ciò stesso non vieta di mutare la semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che ad un altro, purché non siano compiute opere che possano danneggiare le parti comuni dell'edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune, trova applicazione solamente in mancanza di norme regolamentari di natura contrattuale limitative della destinazione e dell'uso delle porzioni immobiliari di proprietà esclusiva di un edificio condominiale".

Questo è il principio di diritto espresso dal Tribunale di Roma con la pronuncia n.12052 del 01 giugno 2016 in merito all'azione di accertamento e d'inibitoria del mutamento della destinazione d'uso d'immobile condominiale.

I fatti di causa. Il condominio con atto di citazione conveniva in giudizio la società Beta, in quanto quest'ultima, proprietaria di un box, aveva abusivamente variato la destinazione d'uso in locale per ufficio; in questo modo, impediva il rilascio del certificato di prevenzione incendi per l'intera autorimessa condominiale.

Per le ragioni esposte, il condominio chiedeva al giudice adito l'inibizione dell'abuso e la condanna della società al ripristino dello status quo ante. Costituendosi in giudizio, la società convenuta contestava in toto le pretese del condominio.

La disciplina del cambio destinazione uso nella normativa urbanistica. La questione dei cambi d'uso, con o senza opere, ha posto, sul piano urbanistico, una serie di incertezze, determinate in particolar modo da normative e prassi non sempre organiche; va infatti tenuto presente che si tratta di una materia su cui impattano legislazione nazionale, normativa regionale e regole comunali.

Prima della riforma introdotta dal cd. Decreto Sblocca Italia (art. 17, comma 1, lettera n), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164), il d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, ossia il Testo unico in materia edilizia (TUE), disciplinava la materia dei cambi d'uso in due norme:l'art. 10, comma 2, in virtù del quale

«Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», prevedendo altresì che «Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire […] gli interventi […] c) che comportino mutamenti della destinazione d'uso» (comma 1);l 'art. 32, comma 1 lett. a), il quale stabilisce, in materia di determinazione delle variazioni essenziali, che «l'essenzialità ricorre quando si verifichi […] mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968».

Con la l. n. 164/2014 al TUE è stata aggiunta una nuova disposizione, l'art. 23 ter, il cui comma 1 recita: «Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale».

Premesso ciò, si configura dunque un cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante solo in presenza di passaggio tra l'una e l'altra delle cinque categorie funzionalmente autonome indicate dalla disposizione appena citata, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere.

Le novità della riforma condominiale: la modifica della destinazione d'uso delle parti comuni. Tra le novità introdotte dalla legge di riforma della materia condominiale, ve ne sono alcune potenzialmente idonee ad impattare su alcune delle questioni qui affrontate: si tratta, in primo luogo, della nuova disciplina in materia di modifiche della destinazione d'uso di una parte comune introdotta dall'art. 1117 ter, che, da un lato, elimina l'unanimità per modificare la destinazione d'uso di una parte comune; dall'altro, introduce una "proibitiva" maggioranza per le delibere e un procedimento di convocazione estremamente articolato.

L'articolo, del tutto nuovo rispetto all'assetto originario del codice civile, regolamenta la "modificazione delle destinazioni d'uso volte a soddisfare esigenze di interesse condominiale". Deve essere comunque garantita la sicurezza nonché il decoro architettonico dell'edificio, unici limiti all'autonomia dell'assemblea condominiale.

In particolare, con una maggioranza pari ai 4/5 dei condomini che rappresentino i 4/5 dei millesimi (ossia 800/1000), la destinazione d'uso della parte comune può essere modificata per soddisfare esigenze di interesse condominiale.

Il procedimento di convocazione è altrettanto rigoroso: l'art. 1117 ter, comma 2, c.c. stabilisce che «La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione»; al comma 3 si specifica altresì che «La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso».

Al quarto comma, l'articolo 1117 ter vieta infine «le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico».

In conclusione, si rileva che, se le parti necessariamente condominiali, quali quelle elencate al n. 1 dell'art. 1117 c.c., «la cui ontologica sussistenza è indefettibile per la conformazione stessa del condominio», non possono assolutamente "perdere" detta destinazione (e tali sono il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti e le scale, ecc.), per altri beni comuni, come i tetti, i lastrici solari, i cortili e le facciate, è possibile ipotizzare una modificazione di destinazione d'uso da collettivo ad individuale, oppure la possibilità che i medesimi divengano

«oggetto di contratti prevedenti la costituzione di diritti reali minori, come il diritto di usufrutto e di abitazione: si pensi alla costituzione, dietro corrispettivo di un prezzo, di un diritto di usufrutto a favore di un condomino avente ad oggetto il cortile comune da utilizzare quale serra di fiori o quale spazio ove esercitare un'attività di ristorazione, od alla alienazione della facciata condominiale a terzi ai fini di sfruttamento pubblicitario».

La nuova disciplina degli interventi sulle parti di proprietà o uso individuale. Un'altra disposizione su cui la riforma è intervenuta è l'art. 1122 c.c., che stabilisce l'impossibilità per i condomini di eseguire opere o modifiche o svolgere attività ovvero variare la destinazione d'uso all'unità immobiliare di proprietà o alle parti comuni in uso individuale, se queste recano danno alle parti comuni o alle proprietà esclusive oppure recano pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.

La riforma include poi, accanto al riferimento alle parti di proprietà, anche quello alle parti destinate all'uso comune «che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale» (si pensi, ad esempio, ai lastrici solari di uso esclusivo): anche in tal caso si pone il divieto di realizzare opere che possano incidere negativamente sulle altre parti comuni.

Si tratta di modifiche quanto mai opportune, che recepiscono la migliore dottrina e giurisprudenza in materia.

Si amplia poi la categoria delle conseguenze pregiudizievoli: non più il mero danno - rispetto alla cui nozione i giudici di legittimità, con espresso riferimento all'art. 1122 c.c. in vigore, avevano peraltro più volte precisato che non dovesse limitarsi al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma che andasse esteso anche al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili dalla cosa comune, anche se di ordine edonistico od estetico (Cass. civ., 27 aprile 1989, n. 1947) -, ma anche il pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio - riprendendosi in tal modo i limiti di cui all'art. 1120, comma 4, c.c., in materia di innovazioni sulle parti comuni.

Nel nuovo testo compare infine un nuovo secondo comma, in virtù del quale, in ogni caso di avvio di lavori che interessino le parti di proprietà esclusiva, se ne deve preventiva notizia all'amministratore, il quale, a sua volta, avrà l'obbligo di riferirne all'organismo assembleare.

Il Ragionamento del Tribunale di Roma.

Dall'istruttoria di causa,era emerso in maniera pacifica che il Comando dei Vigili del Fuoco aveva rilasciato al condominio un parere di conformità in base al quale, l'autorimessa, per le sue caratteristiche strutturali, era soggetta al nuovo regolamento di prevenzione.

Al riguardo, in base a tale regolamento, era consentito all'autorimessa di comunicare con locali di attività di altra destinazione non elencate nel decreto ministeriale; sicché, a parere del giudice, non erano ravvisabili divieti assoluti che rendevano impossibile la comunicazione fra i diversi tipi di locali, alcuni dei quali (autorimesse) soggette al controllo di prevenzione.

Quindi, secondo il tribunale romano, l'azione del condominio non era diretta all'impugnativa di un provvedimento amministrativo ma alla repressione di una situazione lesiva del diritto di uso dell'autorimessa condominiale.

Difatti, tale azione, intesa a contrastare un'innovazione della porzione di piano di proprietà esclusiva che si pretende vietata ex art. 1122 c.c., perché (secondo il condominio) rendendo impossibile ottenere l'autorizzazione antincendio da parte dei Vigili del Fuoco, ricadrebbe se non tra quelle che possano danneggiare le parti comuni dell'edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune, che elidano o riducano in modo apprezzabile le utilità conseguibili dalla cosa comune. (In tal senso Cass. n. 8883/2005 e Cass. n. 1386/2012).

Pertanto, in assenza di un espresso divieto al riguardo, si evidenzia che nella fattispecie in esame non vi è stata alcuna violazione.

Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, il Tribunale di Roma, con la pronuncia in commento, ha rigettato la domanda del condominio poiché il cambio di destinazione d'uso non impedisce di ottenere la certificazione antincendio a tutto il garage.

Difatti, la certificazione amministrativa, fino a quando non interviene un provvedimento amministrativo contrario, non può considerarsi illecita in ambito civile e quindi passibile d'inibitoria e restituzione in pristino.

Meglio non rimanere inerte a fronte del mancato adeguamento alle norme di sicurezza antincendio dell'autorimessa

Ecco perchè la prevenzione incendi si applica anche agli impianti fotovoltaici.

Sentenza
Scarica Tribunale di Roma n.12052 del 01 giugno 2016
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