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Parti comuni: se il condomino chiede l'accertamento della condominialità di un bene il giudice può accertare l'esistenza di un condominio parziale

Quando i beni, non elencati nell'art. 1117 c.c., devono ritenersi comuni?
Avv. Alessandro Gallucci 

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 23851 resa il 24 novembre 2010, è tornata ad occuparsi di parti comuni di un edificio, accertamento della loro condominialità e poteri del giudice in relazione a simili domande giudiziali.

Prima d’entrare nello specifico della questione affrontata dagli “ermellini” è utile ricordare quali sono i beni in condominio e quando possano definirsi tali.

L’art. 1117 c.c. contiene un’elencazione dei beni e delle cose che, in assenza di diverse indicazioni dell’atto d’acquisto o del regolamento condominiale di natura contrattuale, devono ritenersi di proprietà comune. La Cassazione ha specificato in più occasioni che tale elencazione ha mero valore esemplificativo.

Ciò porta a domandarsi: quando i beni, non elencati nell’art. 1117 c.c., devono ritenersi comuni?

In un’illuminante sentenza del 1993 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno specificato sia perché è più corretto parlare di proprietà comune e non di presunzione di condominialità sia quando un bene debba ritenersi tale.

Affermano i giudici di legittimità che “ la norma dell’art. 1117 del codice civile stabilendo che: Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo, le cose in essa elencate nei nn. 1, 2 e 3, non ha sancito una presunzione legale di comunione delle stesse, come erroneamente si è affermato in alcune sentenze di questa Corte, ma ha disposto che detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo che può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o anche dall’usucapione.

E che la norma non abbia previsto una presunzione risulta non solo dalla sua chiara lettera che ad essa non accenna affatto, ma anche dalla considerazione che nel codice si parla esplicitamente di presunzione ogni qual volta con riguardo ad altre situazioni si è voluto richiamare questo mezzo probatorio (v. art. 880, 881 e 899 cod. civ.).

D’altra parte, se con la disposizione dell’art. 1117 si fosse effettivamente prevista la presunzione di comunione, si sarebbe ammessa la prova della proprietà esclusiva con l’uso di qualsiasi mezzo e non soltanto con il titolo.

Tuttavia, con le pronunce di questa Corte nelle quali è stato richiamato il concetto di presunzione, non si è inteso affermare che la prova della proprietà esclusiva delle cose comuni di cui all’art. 1117 cod. civ. possa essere fornita con ogni mezzo e non con il solo titolo cui la norma espressamente si riferisce, ma si sono volute escludere dallo stesso complesso delle cose comuni quelle parti che per le loro caratteristiche strutturali risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari di un determinato edificio.

In altri termini, ritenendosi in tali decisioni che “la destinazione particolare vince la presunzione legale di condominio alla stessa stregua di un titolo contrario”, benché si sia richiamato erroneamente il concetto di presunzione, del tutto estraneo alla norma dell’art. 1117 civ., si è pero, enunciato anche il principio, indubbiamente corretto, secondo cui una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni se serva per le sue caratteristiche strutturali soltanto all’uso e al godimento di una parte dell’immobile oggetto di un autonomo diritto di proprietà” (così Cass. SS.UU. 7 luglio 1993 n. 7449).

In poche parole: anche una parte dell’edificio indicata nell’art. 1117 c.c. potrebbe non essere di proprietà comune a tutti i condomini se la sua funzione non è quella d’essere strumentale al miglior godimento di tutte le parti di proprietà esclusiva.

Tale accertamento, in assenza di specifiche indicazioni degli atti e nel caso di mancanza d’accordo tra le parti, è rimesso all’Autorità Giudiziaria. Il potere del giudice in questo caso non si limita alla mera valutazione della richiesta delle parti ma può spingersi oltre fino ad arrivare a determinare la proprietà del bene indipendentemente dalle domande formulategli.

E’ questo il cuore della pronuncia n. 23851 citata in principio. Secondo la Cassazione, che nell’occasione s’è uniformata al proprio consolidato orientamento, che “ i diritti reali, in quanto diritti assoluti come ha più volte precisato questa S.C. -appartengono alla categoria dei diritti cd. autodeterminati, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il loro titolo che ne costituisce la fonte.

Pertanto, da un lato l'attore può mutare titolo della domanda senza incorrere nelle preclusioni della modifica della "causa petendi", dall'altro il giudice può accogliere il "petitum" in base ad un titolo diverso da quello dedotto senza violare il principio della domanda (art. 112 cod. proc. civ.).” (Cass. n. 7078 del 07/07/1999; Cass. n. 18370 del 30.1. 2002 ) (Cass. 24 novembre 2010 n. 23851).

Come dire: la parte attrice può modulare la propria domanda anche in relazione alle risultanze del procedimento così come il giudice è libero di dare una soluzione differente rispetto a quanto richiesto dalle parti.

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