Se l'appartenenza del sottotetto di un edificio non può essere determinata in base al titolo, è applicabile la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune oppure all'esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla prova della proprietà esclusiva
Il caso Il condominio agiva in giudizio, mediante azione di reintegrazione nel possesso, ex art. 703 c.p.c., nei confronti di un condomino, il quale, approfittando della ristrutturazione del proprio appartamento sito all'ultimo piano dell'immobile, aveva accorpato allo stesso una parte del sottotetto.
Il condominio ricorrente, pertanto, chiedeva la reintegrazione nel possesso della porzione del bene comune illegittimamente sottratto.
Soccombente sia in primo che in secondo grado, il condomino ricorreva per Cassazione con tre motivi di ricorso.
La decisione Con i primi due motivi di ricorso, il ricorrente deduce l'erronea valutazione del giudice nel ritenere esistente il possesso della porzione di sottotetto da parte del condominio.
Invero, afferma il ricorrente, l'esistenza sulle scale comuni di un accesso, peraltro disagevole, al sottotetto non fornisce la prova del possesso da parte del condominio del medesimo sottotetto, essendo di contro necessario dimostrare l'utilizzo effettivo dello stesso da parte del condominio.
Parimenti errata a parere del ricorrente la valutazione del giudice di merito circa la prova dell'esistenza del possesso, in capo al condominio, del bene in contesa, desunta da documentazione attestante la esistenza di una botola sita in un locale che era unito all'appartamento del ricorrente, prima che questi lo acquistasse.
Orbene, la Suprema Corte afferma, in primo luogo, che “l'appartenenza del sottotetto di un edificio va determinata in base al titolo”; tuttavia laddove esso manchi ovvero nulla stabilisca a riguardo, non essendo il sottotetto “compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all'uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. è, in ogni caso, applicabile nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune oppure all'esercizio di un servizio di interesse condominiale, quando tale presunzione non sia superata dalla prova della proprietà esclusiva”.
Nel caso di specie, in assenza di indicazioni desumibili dal titolo, la Corte sottolinea come il giudice di primo grado abbia correttamente illustrato gli elementi da cui si desume la natura comune del bene, ovverossia la presenza, nella porzione di sottotetto sovrastante l'appartamento del ricorrente, di un ambiente unico, privo di divisioni corrispondenti a quelle del sottostante appartamento; l'accesso tramite la scala condominiale ed attraverso l'apertura posta sul pianerottolo condominiale, in assenza peraltro di collegamenti diretti con gli appartamenti sottostanti dell'ultimo piano; la presenza di una soletta portante e calpestabile, con una superficie del pavimento in cemento; la presenza nel sottotetto degli esalatori delle fogne condominiali, di quattro canne fumarie condominiali e di impianti a servizio degli appartamenti all'ultimo piano.
In merito alla questione sollevata da parte ricorrente circa la necessità di dimostrare l'effettivo possesso del bene in capo al condominio mediante la prova dell'utilizzo dello stesso da parte dei singoli condomini, la Suprema Corte ribadisce quanto già affermato in precedenti pronunce, ossia che in tema di possesso dei condomini sulle parti comuni occorre operare una distinzione con riguardo alle cose, agli impianti ed ai servizi: laddove essi siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari a cui sono collegati materialmente o per destinazione funzionale, il possesso consiste nello stesso beneficio che il piano ovvero la porzione di piano trae dall'intrinseca utilità offerta dal bene; nel caso in cui invece siano utili soggettivamente (come ad esempio scale, portoni, anditi, portici), è necessario l'espletamento di un'attività materiale di manifestazione del possesso.
Nel caso in esame, sulla scorta degli elementi evidenziati dai giudici di merito, emerge che “il sottotetto in oggetto rientra per le sue caratteristiche e per la sua destinazione funzionale tra i beni per i quali l'esercizio del possesso da parte del condominio non richieda l'espletamento di un'attività materiale, concretandosi nello stesso beneficio offerto in maniera oggettiva dal bene stesso”.
Con il terzo ed ultimo motivo di ricorso, si deduce l'assenza della prova dell'esistenza dell'animus spoliandi in capo al ricorrente.
Invero, quest'ultimo sostiene di aver effettuato i lavori di ristrutturazione dell'immobile, ed in particolare del sottotetto, nella convinzione di esserne l'esclusivo proprietario, premurandosi, peraltro, di rendere edotto il condominio circa le proprie intenzioni di procedere al rifacimento del sottotetto mediante l'invio di diverse missive all'amministratore condominiale.
Il motivo si appalesa privo di pregio, poiché, afferma la Corte, l'attività posta in essere dal ricorrente è “avvenuta contro la volontà, seppur presunta, degli altri condomini, dando vita pertanto ad uno spoglio violento secondo l'accezione richiesta dall'articolo 1168 c.c.”; invero, secondo costante orientamento del Supremo Collegio, “l'animus spoliandi può ritenersi insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore contro la sua volontà, espressa o tacita, indipendentemente dalla convinzione dell'agente di operare secondo diritto ovvero di ripristinare la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto, mentre la volontà contraria allo spoglio, da parte del possessore, può essere esclusa solo da circostanze univoche e incompatibili con l'intento di contrastare il fatto illecito come il suo consenso, l'onere della cui prova grava sul soggetto autore dello spoglio medesimo”.
Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.