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L'applicazione delle norme sulle distanze in condominio non è automatica

Le norme sulle distanze in condominio applicabili nel rispetto della natura della cosa comune.
Avv. Alessandro Gallucci 

Il condominio negli edifici, quale particolare forma di comunione forzosa nella quale coesistono parti di proprietà esclusiva (le unità immobiliari) e di proprietà comune (quelle note, per l'appunto, come condominio), non è soggetto automaticamente alle normative dettate in materia di distanze nelle costruzioni.

Il fatto, già di per sé noto, è stato ribadito in un principio di diritto espresso obiter dictum dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 4741 del 27 febbraio 2014.

Obiter dictum, ossia detto incidentalmente: nel caso sottoposto alla loro attenzione i giudici, infatti, hanno deciso la controversia sulla base di altri argomentazioni giuridiche ma si sono comunque espressi su un aspetto attinenti la causa stessa.

Condominio, uso della cosa comune e distanze.

Ai sensi del primo comma dell'art. 1102 c.c.:

Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.

Come contemperare il diritto di tutti, singolarmente considerati, senza che il diritto di ogni condomino possa comprimere quello altrui? Sembra un gioco di parole ma la vera difficoltà sottesa alla corretta applicazione dell'articolo in esame sta proprio in questo fatto. (Perché chi viola le norme sulle distanze nelle costruzioni è tenuto anche al risarcimento del danno?)

Secondo la Cassazione, che ormai da anni si pronuncia costantemente in modo sostanzialmente identico, che "il pari uso della cosa comune non postula necessariamente il contemporaneo uso della cosa da parte di tutti i partecipanti alla comunione, che resta affidata alla concreta regolamentazione per ragioni di coesistenza; che la nozione di pari uso del bene comune non e' da intendersi nel senso di uso necessariamente identico e contemporaneo, fruito cioe' da tutti i condomini nell'unita' di tempo e di spazio, perché se si richiedesse il concorso simultaneo di tali circostanze si avrebbe la conseguenza della impossibilità per ogni condomino di usare la cosa comune tutte le volte che questa fosse insufficiente a tal fine" (Cass. 16 giugno 2005 n. 12873).

Tutti possono fare tutto nel rispetto della natura della cosa comune e del diritto degli altri. In questo contesto, è sempre la Cassazione a parlare, alcune prescrizioni aventi carattere generale possono cedere il passo.

Un esempio è proprio rappresentato dalla normativa riguardante le distanze. Secondo gli ermellini, infatti, "le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distante che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.

Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale" (Cass. 27 febbraio 2014 n. 4741).

Esempio plastico della irrilevanza delle norme sulle distanze in materia di condominio è rappresentato dalla possibilità di aprire luci e vedute sui muri comuni senza dover necessariamente rispettare quanto specificato dall'art. 907 c.c. (cfr. Cass. 9 giugno 2010 n. 13874).

Sentenza
Scarica Cass. 27 febbraio 2014 n. 4741
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