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La vincolatività del regolamento contrattuale sulle proprietà esclusive dei condomini

Con la sentenza in disamina la Corte di Cassazione approfondisce alcuni aspetti afferenti il regolamento contrattuale in ordine alla vincolatività delle clausole ivi contenute.
Avv. Nicola Frivoli 

Con sentenza emessa in data 9 agosto 2022, n. 24526 la Corte di Cassazione, Sezione II, si è pronunciata su sei motivi di censura in virtù dell'azione intrapresa da alcuni condomini proprietari di appartamenti facenti parte di un condominio innanzi al Tribunale di Trani, sede distaccata di Barletta, domanda nei confronti di un condomino, proprietario del piano terra e di cantinato, affinché venisse condannato a cessare l'attività di pasticceria e di relativo laboratorio artigianale, nonché a rimuovere le opere connesse, In particolare gli attori deducevano che tale attività, di tipo artigianale, non era ammessa dall'art. 20 del regolamento condominiale, il quale vietava di adibire gli appartamenti e locali di proprietà esclusiva ad uso artigianale.

Gli istanti lamentavano, altresì, che il convenuto aveva:

  • trasformato l'atrio scoperto di pertinenza del locale a piano terra, destinato a parcheggio, in un vano adibito a laboratorio, con presenza di macchinari;
  • apposto una canna fumaria sulla facciata del fabbricato, utilizzandola solo alla sua proprietà individuale;
  • occupato una parte della corsia di manovra del box auto con ciclomotori e utensili di pasticceria ed abbassato la volta del box, per allocarvi ulteriori tubazioni per espellere i fumi di produzione dell'attività;
  • apposto un cancello antistante la serranda del box di sua proprietà, all'interno del quale aveva installato macchinari produttivi dei fumi immessi nella predetta corsia dei box;
  • messo in comunicazione il piano terra con quello cantinato, attraverso la realizzazione di una scala interna e una copertura del solaio a piano terra, mettendo a rischio la stabilità dell'edificio.

Si costituiva il convenuto contestando che l'art. 20 del regolamento condominiale vietasse di adibire le proprietà individuali ad attività artigianali, e negava la dedotta illegittimità delle opere che aveva realizzato. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda principale.

Veniva proposto il gravame da parte del convenuto innanzi alla Corte di Appello di Bari che si pronunciava con sentenza in data 18.05.2017, n. 616, respingendo l'appello. Detta Corte osservava che il richiamo all'art. 1138, ultimo comma, c.c. contenuto nel primo motivo, con il quale l'appellante aveva dedotto che il regolamento condominiale non poteva porre limiti alle unità immobiliari di proprietà esclusiva, non era pertinente al caso di specie, riferendosi al divieto di possedere o detenere animali domestici; che, era, altresì, infondata la doglianza di violazione degli artt. 1138, quarto comma e 1362 c.c., sull'interpretazione del regolamento condominiale, atteso che quest'ultimo aveva natura contrattuale e che tra gli usi vietati nelle unità immobiliari erano chiaramente ed espressamente indicati l'esercizio di negozi e di attività artigianali; che di riflesso, l'appellato, oltre a dovere cessare la propria attività, doveva rimuovere anche tutte le opere realizzate, perché funzionali a tale esercizio.

Avverso la decisione del giudice del gravame, l'appellato proponeva ricorso in cassazione adducendo sei motivi di doglianza. Resistevano con controricorso alcuni appellanti, e due erano rimasti intimati.

I motivi del ricorso

Con il primo motivo, il ricorrente eccepiva la violazione dell'art 1138, quarto comma, c.c., n relazione, al n. 3 dell'art. 360 c.p.c. Detta parte premetteva che il primo motivo d'appello conteneva un evidente errore materiale nell'indicare come violato l'ultimo, invece, del quarto comma dell'art. 1138 c.c., e che l'errata individuazione della norma violata non è causa né d'inammissibilità né d'infondatezza del motivo, posto che il Tribunale avrebbe dovuto disapplicare la previsione regolamentare dell'art, 20, in virtù della illegittimità delle limitazioni imposte da tale clausola.

Con il secondo motivo il ricorrente denunciava l'omessa pronuncia, in violazione dell'art. 112 c.p.c., ed in rapporto al n. 4 dell'art. 360 c.p.c., del secondo motivo d'appello, atteso che la sentenza impugnata non aveva in alcun modo valutato la dedotta violazione del canone ermeneutico dell'art. 1362 c.c. Chiedeva che si pronunciasse la Corte di Cassazione sul punto posto che la Corte territoriale non lo aveva fatto.

Con il terzo motivo si lamentava l'omessa pronuncia sul terzo motivo del gravame da parte della Corte di appello, inteso ad evidenziare che l'art. 20 del regolamento condominiale, nel vietare di adibire l'appartamento o il locale di proprietà singola ad un uso diverso dall'abitazione o studio, violava apertamente l'art. 1138, quarto comma, c.c., in base al quale le norme del regolamento contrattuale non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti d'acquisto, sicché il regolamento, nella specie, rimettendo all'assemblea il potere di consentire usi diversi, sembrerebbe avere natura non contrattuale ma assembleare.

Con il quarto motivo si eccepiva la violazione dell'art. 1138, quarto comma, c.c. in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.c. Parte ricorrente negava che l'art. 20 del regolamento condominiale si riferisse o si potesse riferire, senza violare la ridetta norma, all'uso artigianale, locuzione generica e indeterminata che non sarebbe espressiva di una volontà chiaramente manifestata.

A confutazione, poi, del potere di porre un siffatto divieto, parte ricorrente invocava l'applicazione di precedente (Cass. civ. sez. II, 18 ottobre 2016 n. 21024), secondo cui la previsione contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull'estensione ma sull'esercizio del diritto di ciascun condomino, andava ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obbligazioni propter rem.

Con il quinto motivo il ricorrente denunciava la violazione dell'art. 41 Cost., sempre in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.p.c., perché la sentenza impugnata incideva, vietandola, su di una attività economica intrapresa dal ricorrente sin dal 1991, senza una sola ragione che lo giustificasse.

Con il sesto motivo si denunciava la violazione degli artt. 1102 e 1362 c.p.c. , in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.p.c. Affermava che le argomentazioni adottate nella sentenza impugnata erano da considerarsi illegittime, in particolare con rifermento alle opere realizzate dal ricorrente e per la giurisprudenza di legittimità era legittimo l'uso più intenso della cosa comune, purché nel rispetto del godimento effettivo o potenziale degli altri comproprietari, godimento che nel caso in esame non era stato provato il suo impedimento.

La Suprema Corte riteneva infondati i primi tre motivi di censura, accogliendo il quarto motivo (nel quale veniva assorbito il quinto motivo di ricorso) nonché il sesto motivo.

Infondatezza della questione pregiudiziale di inammissibilità

La Cassazione riteneva infondato dell'assunto del controricorrente, secondo cui tale mezzo sarebbe meritevole di dichiarazione di inammissibilità, in quanto il ricorrente nel giudizio di primo grado non avrebbe mosso censure in merito alla validità ed efficacia del ricorrente regolamento condominiale; in realtà tale assunto è stato ribadito nella memoria depositata da detta parte di ricorrente.

Errore materiale di parte appellante

Gli ermellini precisano che nonostante la mancata rilevazione dell'evidente errore materiale in cui era incorsa parte appellante nel formulare il primo motivo di gravame, lì dove era denunciata la violazione dell'ultimo, invece del quarto comma dell'art. 1138 c.c., la Corte distrettuale si è pronunciata chiaramente sul secondo motivo di appello.

A tale riguardo ha pronunciato che il regolamento condominiale "ha natura contrattuale e da ciò deriva la piena vincolatività delle limitazioni all'uso delle parti comuni e parti in proprietà esclusiva in esso contenute", tra le quali il riferimento alle attività artigianali espletate dal ricorrente.

Divieto del regolamento condominiale di natura contrattuale a limitare determinate destinazioni degli immobili

Quanto pronunciato dalla Corte d'appello di Bari è oggetto del quarto motivo di ricorso, che si fonda essenzialmente nella negazione che il regolamento condominiale possa limitare determinate destinazioni dell'unità immobiliari di proprietà singola, attribuendo all'assemblea il potere di consentirne deroga, in caso di natura contrattuale, né nella conseguente postulazione che tali divieti possono operare se risultanti da una volontà espressamente e chiaramente manifestamente in forma contrattuale e da un atto debitamente trascritto.

In base all'art. 1138 c.c. il regolamento condominiale contiene le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione (comma primo).

Esso deve essere approvato dall'assemblea con maggioranza stabilita dall'art. 1136, comma 2, c.c. ed allegato al registro indicato dal numero 7 dell'art. 1130 c.c., e può essere impugnato a norma dell'art. 1107, comma 3, c.c. Inoltre, le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti d'acquisto e delle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120 ,1129, 1131,1132, 1136 e 1137 c.c. (comma quarto).

Va, altresì, precisato che i regolamenti, ove formatisi con tecnica contrattuale, oltre a regolare l'uso delle parti comuni contengono apposite clausole limitative dei diritti di ciascun condomino sulla porzione della proprietà esclusiva.

Si tratta, comunque, di divieti di fruizione economica o di destinazione diretta ad attività (produttive, ludiche, sanitarie ecc.) potenzialmente idonee ad arrecare disturbo alla primaria modalità di godimento abitativa.

Le clausole del regolamento che limitano i diritti di ciascun condomino devono essere esplicite

I divieti ed i limiti di destinazione alla facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rilevatrici di un intento chiaro ed esplicito non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, necessita una interpretazione di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (cfr. Cass. civ. sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21307; Cass. civ., sez. VI-II, 11 settembre 2014, n. 19229; Cass. civ. 01 ottobre 1997 n. 9564).

Non meno importante è l'aspetto che tale accertamento è rimesso al giudice di merito, implicando una caratteristica valutazione di fatto. Nella fattispecie posta al vaglio della Corte territoriale, quest'ultima ha ritenuto che la previsione dell'art 20 del regolamento condominiale includa, tra le attività artigianali, anche quella di pasticceria.

Però, le limitazioni all'uso delle parti di proprietà individuale non formano oggetto del potere regolamentare, come sancito nell'art. 1138, comma 1, c.c. Comunque, nel caso siano contenute in un regolamento di condomino, esse in tanto sono efficaci in quanto siano espressione dell'accordo di tutti condomini.

Regolamenti contrattuali ed assembleari: differenza nella modifica

Le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall'originario proprietario dell'edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive ovvero attribuite ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto ad altri, mentre qualora si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto all'unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la stessa natura contrattuale, invece le clausole regolamentari sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall'art 1136, secondo comma, c.c. (Cass. civ. S.U. 1999 n.943).

Di riflesso, la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive e sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiore di quelli degli altri condomini (Vedi Cass. civ. S.U. 30 dicembre 1999, n. 943; Cass. civ. sez. II, 29 dicembre 2004, n. 24146; Cass. civ. sez. II, 18 aprile 2002, n. 5626).

Errata valutazione del giudice del gravame

La Corte d'appello di Bari ha fondato il suo convincimento, erroneamente, nell'assunto per cui dalla natura contrattuale del regolamento "deriva la piena vincolavità delle limitazioni all'uso delle parti comuni e delle parti di proprietà esclusiva in esso contenute", senza curarsi di accertare se nel titolo d'acquisto dell'originario ricorrente siffatte limitazioni alla destinazione dell'unità immobiliare siano state effettivamente riprodotte, e non già semplicemente desumibili dal mero rinvio al regolamento che materialmente le contiene.

Tale affermazione della sentenza impugnata, oltre a violare l'art. 1138, quarto comma, c.c., dando automatico e presupposto l'effetto limitativo della proprietà singola in virtù della sola tecnica contrattuale di formazione del regolamento condominiale, però non verificando il contenuto del titolo da cui proprietà del ricorrente, nel senso che la Corte territoriale non ha accertato se questo contenga un mero rinvio al regolamento condominiale o se riproduca espressamente le clausole limitative della singola proprietà.

Ciò rinviene dal principio in diritto contenuto dall'art. 384, comma 1, c.p.c., secondo cui: "Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all'interno dell'atto di acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro il mero rinvio al regolamento stesso". Alla luce di quanto contenuto nella disposizione dell'articolo citato, dalla pronuncia impugnata non è dato desumere, inoltre, se il ricorrente abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino.

Ciò è rilevante in quanto, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell'atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all'acquisto fatto dal ricorrente, ed in tal caso non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso.

La necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti del negoziali, ai sensi dell'art. 1372 c.c.

Per completezza, in assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell'atto di vendita, ma alla duplice condizione che:

  • esso sia corredato dalla specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente, il mero rinvio al regolamento condominiale;
  • dette clausole ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché diversamente torna ad operare il limite dell'art. 1372 c.c..

Posto ciò, appare condivisibile la decisione della Suprema Corte in merito all'accoglimento del quarto motivo (con assorbimento del quinto motivo), siccome svolto in termini di sostegno al detto motivo. È fondato anche il sesto motivo poiché la pronuncia impugnata fa espressamente dipendere dalla ritenuta illegittimità artigianale svolta dal ricorrente la condanna ad eliminare tutte le opere a questa funzionali, inclusa la rimozione delle masserizie allocate in parti comuni.

Pertanto, giustamente sono accolti il quarto e sesto motivo del ricorso, respinti i primi tre motivi ed assorbito il quinto, e cassata la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, che si atterrà ai principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte e provvederà in ordine alla spese del giudizio di cassazione.

In conclusione, è stato accolto il quarto e sesto motivo d ricorso, respinti i primi tre ed assorbito il quinto, e cassata la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Bari, che provvederà in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Sentenza
Scarica Cass. 9 agosto 2022 n. 24526
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