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Locazione. Va in fumo l'escamotage del locatore per evitare di versare l'indennità di perdita dell'avviamento

Clausola risolutiva espressa e indennità di perdita dell'avviamento.
Samantha Mendicino Avvocato del Foro di Cosenza 

La clausola risolutiva espressa, che il locatore tenta di far valere con una comunicazione successiva alla cessazione del contratto a seguito di convalida di licenza, non ha ragione d'essere. Il locatore, infatti, a contratto concluso non ha più né interesse né diritto ad esercitare tale clausola contrattuale

Rilascio dell'immobile al pagamento dell'indennità di avviamento da parte del locatore

Il principio. Cessato il contratto di locazione per uso diverso da quello abitativo a seguito della convalida della licenza intimata dal locatore, questi non ha interesse a far valere -dopo la scadenza- una clausola risolutiva espressa del contratto, neppure al fine di sottrarsi al versamento della indennità per la perdita dell'avviamento commerciale.

Questo è quanto espresso dalla Corte di Cassazione con sentenza n° 3795 pubblicata il 14 febbraio 2017

La vicenda. Nella fattispecie concreta il locatore, dopo aver intimato la licenza per finita locazione ed aver ottenuto la sua convalida, inviava al conduttore, in data successiva alla scadenza del contratto, comunicazione con la quale dichiarava di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa.

Quest'ultimo, dal proprio canto, lamentava che se fosse stata accettabile che il locatore potesse chiedere la risoluzione del contratto -anche dopo la sua scadenza- per non pagare l'indennità di avviamento, cioè lo avrebbe potuto fare esclusivamente per far accertare una causa di risoluzione per grave inadempimento e giammai per fare accertare l'operatività di una clausola risolutiva espressa comunicata dopo la scadenza del contratto.

Chiedeva tutela all'Autorità Giudiziaria, arrivando sino in Cassazione, per far accertare che la già avvenuta cessazione del contratto, per finita locazione, comportava la preclusione a far valere quella clausola, con la ulteriore conseguenza della debenza delle indennità di avviamento poiché la inutile tentata risoluzione del contratto per inadempimento non era ostativa alla insorgenza del diritto in parola.

La decisione. In conclusione il locatore viene condannato a versare al conduttore la indennità per la perdita di avviamento dell'attività disciplinata dall'art. 34 della L. n. 392/1978.

La debenza della indennità de qua, secondo la Corte di Cassazione, era ormai cristallizzata per il fatto che il contratto era cessato a seguito dell'iniziativa della parte locatrice, mediante la richiesta della licenza e, pertanto, non vi era spazio né tanto meno interesse per l'accertamento della risoluzione a seguito dell'esercizio della clausola risolutiva espressa in un momento successivo alla cessazione del contratto.

L'indennità per la perdita dell'avviamento. I presupposti della indennità si ravvisano nelle seguenti circostanze:

1. L'immobile, così per come evincibile espressamente dal contratto, deve essere adibito ad attività industriali, commerciali, artigianali o di interesse turistico (nella fattispecie concreta si trattava di una casa per anziani, quindi, locato per fini commerciali);

2. Il mancato rinnovo del contratto non deve dipendere da risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o dalla presenza di procedure concorsuali (nella fattispecie concreta non sono state ravvisate motivazioni di inadempimento tali da non accettare la richiesta del locatore);

3. L'attività esercitata dal conduttore deve comportare contatti diretti con il pubblico degli utenti e/o consumatori e l'utilizzo dell'immobile non deve essere marginale.

Inoltre, è necessario ricordare che se il locatore, entro l'anno successivo alla cessazione del contratto, concede il proprio immobile ad altro conduttore per attività affini a quelle del precedente e/od attività incluse nella medesima tabella merceologica, il conduttore uscente ha diritto ad un'ulteriore indennità, il cui importo è uguale all'indennità ordinaria.

La clausola risolutiva espressa. L' istituto in parola è disciplinato dall'art.1456 c.c. e consiste, in estrema sintesi, in una pattuizione tra i contraenti in base al quale si intende risolto il rapporto in essere nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite”.

La peculiarità della clausola sta nel fatto che le obbligazioni tra le parti devono essere indicate espressamente all'interno del contratto al fine di specificare quali siano le prestazioni, e le relative modalità, la cui mancata esecuzione porterà alla risoluzione del contratto in essere.

Inoltre, l'inadempimento considerato presupposto per l'esercizio del diritto potestativo in parola, che permette la risoluzione del contratto, non necessariamente deve essere grave e necessita che l'avente diritto manifesti inequivocabilmente la volontà di avvalersene.

E' abbastanza invalso nell'uso la clausola di tal tenore: ‘in caso di gravi violazioni da parte del conduttore di qualunque obbligo indicato nel presente contratto, il contratto si risolverà di diritto'. In realtà, anche la giurisprudenza di legittimità ha più volte ricordato che la clausola risolutiva espressa è nulla per indeterminatezza e/o allorquando, nella sua formulazione, rimetta in via esclusiva ad una delle parti (in materia, generalmente il locatore) la valutazione della importanza dell'inadempimento della controparte (Cass. Civ., sent. n. 4796/2016).

Chi deve provare l'uso dell'immobile. E' certamente interessante rammentare che in caso di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, il conduttore che chieda il pagamento dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale – a seguito del termine del rapporto- non ha il dovere di provare che nell'immobile si svolgeva attività con contatto diretto con il pubblico solo se questa circostanza deriva dalla destinazione contrattuale del cespite.

In questa ipotesi, infatti, grava sul locatore, che dovesse eccepire una diversa reale destinazione, l'onere di provare tale circostanza impeditiva della pretesa.

Diversamente non opera tale presunzione se nel contratto nulla viene precisato in ordine alla destinazione ‘commerciale' dello stesso ma se, di fatto, l'attività del conduttore determina un contatto diretto con utenti e/o col pubblico, sarà onere di quest'ultimo provare che, nei limiti del regolamento contrattuale, l'immobile era stato adibito in concreto ad attività comportante il contatto suddetto (Cass. Civ., sent. n. 10615/2010).

Qualche precedente in materia. Come ci si comporta con l'indennità per la perdita di avviamento commerciale, ad esempio, allorquando il conduttore utilizza il bene, locato con contratto ad uso diverso da quello abitativo, in parte come deposito e solo in parte per lo svolgimento di una attività che comporti il contatto diretto col pubblico? A rispondere è la Suprema Corte che osserva come tale indennità sia dovuta, in casi simili, solo se vi sia prevalenza del carattere imprenditoriale della detenzione nel bene e la relativa quantificazione deve avvenire con riferimento all'intero canone di locazione e non solo alla quota, di quel canone, proporzionata alla superficie adibita all'uso commerciale (Cass. Civ., sent. n. 13936/2016).

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