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La tassa sui rifiuti è applicabile ai box auto?

Ecco perchè si presuppone che il pagamento della Tari sia dovuto da chiunque occupi....?
Dott.ssa Maria Adele Venneri 

La Cassazione, di recente è stata chiamata a decidere se era applicabile o meno la tassa sulla raccolta dei rifiuti (Tarsu) ad un box auto

La lunga storia di una tassa. In principio era la TARSU, poi vennero la TARES e la TARI. La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, abbreviata in TARSU, fu prevista dal d.lgs. 15 novembre 1993 n. 507.

Invece, il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, TARES, concernente la gestione dei rifiuti, fu introdotto dal Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201, c.d. "decreto salva Italia", convertito con Legge 22 dicembre 2011 n. 214, in sostituzione delle precedenti Tariffa di igiene ambientale (TIA) e Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU).

Infine, la tassa sui rifiuti, TARI, istituita dalla Legge n. 147 del 27 Dicembre 2013, commi 639 e ss., decorre dal 01 Gennaio 2014 e sostituisce il prelievo vigente fino al 31 Dicembre 2013 (TARES e T.I.A.).

La TARI rappresenta, infatti, la componente relativa al servizio rifiuti dell'Imposta Unica Comunale (IUC) ed è destinata a finanziare integralmente i costi del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti a carico dell'utilizzatore.

Applicabilità o meno della tassa sui rifiuti ad un box auto. In merito l'applicabilità o meno della tassa sui rifiuti ad un box auto è intervenuta la Corte di Cassazione con l'Ordinanza del 19 febbraio 2014, n. 8245.

Nel caso in esame, gli Ermellini accolgono il ricorso presentato da un Comune (che soccombeva nei primi due gradi di giudizio), per il negato pagamento da parte di un contribuente della tassa per la raccolta dei rifiuti relativamente ad un box auto.

Il caso. Il Comune di Catania ricorreva alla Suprema Corte per la Cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia n. 457/11/34, depositata il 21/11/2011.

La suddetta sentenza rigettava, infatti, l'appello promosso dal Comune contro la sentenza della CTP di Catania n. 770/3/2009, che aveva accolto il ricorso del contribuente avverso l'avviso di accertamento per la TARSU.

Con il ricorso alla Corte di Cassazione, il Comune assumeva la violazione e falsa applicazione degli artt. 62 e 63 del D.lgs. n. 507/1993 nonché degli artt. 71 e 73 del precitato decreto in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c, “laddove la CTR ha ritenuto esente da TARSU il garage, in assenza di prova da parte del contribuente nonché di originaria denuncia”.

La Corte con l'ordinanza n. 8245 del 19 febbraio 2014 accoglieva il ricorso rigettando pertanto il precedente ricorso avverso l'avviso di accertamento della TARSU.

Il principio di diritto posto alla base della decisione. Gli Ermellini, hanno statuito che: “Il presupposto impositivo della t.a.r.s.u. è l'occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti (art. 62,I comma, d.lgs. 507/93).

Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrare in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione (art.62, comma 2 d.lgs. cit.).

L'art. 62, pone quindi a carico dei possessori di immobili una presunzione legale relativa di rifiuti. Ne consegue che l'impossibilità dei locali o delle aree a produrre rifiuti per loro natura o per il particolare uso, prevista dall'art. 62, comma 2, non può essere ritenuta in modo presunto dal giudice tributario, essendo onere del contribuente indicare nella denuncia originaria o di variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità, le quali devono essere “debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione” (Conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n.11351 del 06/07/2012; Sez. 5, Sentenza n. 17703 del 02/09/2004)”.

Riferimenti normativi. L'art. 62, rubricato come “presupposto della tassa ed esclusioni”, al comma 1 dispone che: “La tassa è dovuta per l'occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli articoli 58 e 59, fermo restando quanto disposto dall'art. 59, comma 4.

Per l'abitazione colonica e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza la tassa è dovuta anche quando nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata soltanto la strada di accesso all'abitazione ed al fabbricato…”.

Invece, l'art. 62, al comma 2 dispone che: “Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione”.

Nel caso in esame, quindi, la Cassazione accoglie il ricorso del Comune e stabilisce che solo i locali ed aree che non possono produrre rifiuti (o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in condizioni di obiettiva inutilizzabilità) non sono soggetti alla tassa sui rifiuti.

La legge, dunque, presuppone che il pagamento della Tari sia dovuto da chiunque occupi o detenga locali ed aree scoperte (a qualsiasi uso adibiti o a qualsiasi titolo) che producano rifiuti di regola e per loro natura.

Alla luce di quanto sopra esposto ne consegue che la prova del fatto che non siano prodotti rifiuti deve essere fornita dal contribuente nella denuncia originaria o anche successiva.

Sentenza
Scarica Corte di Cassazione, ordinanza n. 8245 del 19 febbraio 2014
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