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Rimozione amianto. Condannato l'inquilino che impediva l'accesso all'immobile.

Va condannato per lite temeraria l'inquilino che si rifiuta di liberare l'immobile per consentire la rimozione dei materiali in amianto in esso presenti.
Avv. Giuseppe Donato Nuzzo 

Va condannato per lite temeraria l'inquilino che, reiteratamente, illegittimamente e ingiustificatamente, si rifiuta di liberare l'immobile per consentire la rimozione dei materiali in amianto in esso presenti, costringendo l'attore a un lungo e costoso contenzioso per ottenere l'esecuzione coattiva del provvedimento cautelare.

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Così ha deciso la sezione feriale del Tribunale di Catania con la sentenza in commento, che condanna l'inquilino al pagamento di 5.000 euro, oltre alle spese processuali, per essersi immotivatamente e lungamente opposto all'ordine del Comune, confermato per via giudiziale, di liberare l'immobile dall'amianto, impedendo l'ingresso nei locali alla ditta incaricata di rimuovere il materiale altamente nocivo alla salute.

Attenzione, dunque, ad avventurarsi in controversie giudiziarie per questione che possono risolversi anche senza l'intervento del giudice o a resistere in giudizio al solo fine di rinviare nel tempo le giuste pretese della controparte: il conto da pagare, alla fine, potrebbe essere salatissimo.

Il fatto. Con proprio provvedimento il Comune imponeva di liberare l'immobile dai residui di amianto in esso presenti. Poiché l'immobile era materialmente detenuto dal convenuto in forza di regolare contratto di locazione, il destinatario si rivolgeva al giudice ottenendo un provvedimento cautelare con cui si ordinava all'inquilino di consentire l'accesso nell'immobile.

Ciò nonostante, l'inquilino si rifiutava di ottemperare all'ordine del giudice, sicché l'attore era costretto ad adire nuovamente le vie legali. L'inquilino si costituiva in giudizio, continuando a opporsi al provvedimento cautelare con eccezioni pretestuose e prive di fondamento, oltretutto indebolite dal fatto che, nelle more del giudizio, il contratto di affitto veniva dichiarato risolto, sicché il convenuto si ritrovava a detenere l'immobile in questione senza titolo.

A fronte del reiterato e ingiustificato rifiuto dell'inquilino, al Tribunale di Catania non rimane che un'unica possibile modalità di esecuzione: l'estromissione del convenuto dall'immobile, anche a mezzo della forza pubblica.

Insomma, la difesa temeraria del convenuto richiedeva più volte l'intervento del giudice e, da ultimo, l'intervento dell'ufficiale giudiziario, con ulteriore aggravio di spese e di tempo.

Da qui la decisione di punire la condotta processuale del convenuto, condannandolo, oltre alle spese processuali, anche al pagamento di 5 mila euro ai sensi dell'art. 96, ultimo comma, c.p.c., per aver reiteratamente, illegittimamente e ingiustificatamente rifiutato l'ottemperanza a un provvedimento cautelare, costringendo la controparte a un lungo e costoso contenzioso per l'esecuzione coattiva di un provvedimento che non presentava particolari elementi di discussione.

La condanna per lite temeraria. Il fondamento della condanna in commento è dato dall'art. 96 c.p.c. che, all'ultimo comma, dispone: "in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata".

La ratio della norma è quella di punire la parte che non adempia spontaneamente i propri obblighi, costringendo la controparte a un giudizio, e/o agisca o resista in giudizio infondatamente, introducendo nel sistema giudiziario un elemento di dissuasione dal comportarsi in tal modo: la consapevolezza di poter subire la condanna di cui al 3° comma dell'art. 96 c.p.c. induce (o almeno dovrebbe indurre) le parti a ponderare con prudenza le loro condotte stragiudiziali e giudiziali.

La condanna per lite temeraria è rimessa alla scelta discrezionale del giudice, indipendentemente dall'accertamento della mala fede, della colpa grave o della imprudenza della parte.

È altresì rimessa al giudice la scelta della somma da porre a carico della parte, da determinare in misura tale da costituire, per la parte condannata a pagarla, "un'afflizione rilevante da fare da deterrente a reiterare le condotte che si intendono punire".

Interessanti le considerazioni a latere svolte dal Giudice siciliano; quasi uno sfogo, del tutto giustificato, in ordine all'elevato numero di "liti temerarie" che intasano pesantemente il lavoro nelle aule giudiziarie:

"il nostro sistema giudiziario è gravato da un elevatissimo numero di cause, nella stragrande maggioranza delle quali almeno una delle parti è pienamente consapevole della infondatezza delle sue difese, ma agisce o resiste in giudizio perché trova vantaggioso impegnare la controparte in un contenzioso che costa a quella tempo e denaro.
Più dell'85% del contenzioso di questo ufficio ha un esito scontato e prevedibile dalle parti fin dall'inizio.
Questo contenzioso, il tempo e il denaro necessari a gestirlo avvantaggiano chi ha colpevolmente torto e assorbono una enorme quantità di risorse dell'amministrazione giudiziaria sottraendole al piccolo numero di controversie che davvero hanno bisogno di un giudice per essere risolte: quelle nelle quali vi è oggettiva incertezza e/o controvertibilità del fatto o del diritto.
Le cause che hanno bisogno di un giudice durano anni, perché i giudici sono impegnati con un elevatissimo numero di controversie che non avrebbero bisogno di loro per essere risolte.
È necessario, dunque, rendere decisamente sconveniente per chi perde agire o resistere in giudizio nella consapevolezza di avere torto.
A questo serve la sanzione di cui all'art. 96, 3° comma, c.p.c.".

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