Nel condominio coesistono parti di proprietà privata con altre di proprietà comune a tutti i condòmini. Se per le prime, in genere, non sussistono grandi problematiche, le dolenti note sorgono allorquando si tratti di dover utilizzare le aree comuni, tipo il cortile, l'androne, il parcheggio, ecc.
In questi casi, i diritti che ciascuno rivendica sull'utilizzo della cosa comune possono entrare in contrasto e sfociare in un contenzioso giudiziario.
È ciò che accade quando il proprietario dei locali siti a pianterreno decide di utilizzare i muri dell'androne per pubblicizzare la propria attività commerciale, magari adibendoli a vetrine per l'esposizione della merce.
Sull'abuso della cosa comune e la legittimità delle vetrine sui muri dell'androne condominiale si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza numero 18038 del 28 agosto 2020. Vediamo quali principi sono stati enunciati.
Installazione vetrine sui muri comuni: il caso sottoposto alla Suprema Corte
Il caso posto all'attenzione dei Supremi giudici riguarda una decisione della Corte d'Appello di Salerno con cui, in riforma della sentenza di primo grado, venivano accolte le domande degli appellanti, riconoscendo a costoro il diritto di utilizzare i muri dell'androne di ingresso del condominio e, al contempo, dichiarando illegittima, agli effetti dell'art. 1102 c.c., l'utilizzazione fatta di tale androne da parte degli appellati, i quali si erano impossessati degli spazi dei muri più appetibili a fini commerciali.
La Corte d'appello aveva poi proceduto a determinare le superfici dell'androne di cui le parti in causa (proprietari di terranei ubicati all'interno del cortile condominiale, adibiti ad esercizio commerciale) potevano disporre in ragione del valore millesimali delle rispettive proprietà.
La Corte di Salerno aveva altresì accolto in parte le domande di rimozione delle vetrine apposte sui muri dell'androne, condannando gli appellati al risarcimento dei danni in favore di ciascuno degli appellanti.
Installazione vetrine sui muri comuni: i motivi del ricorso in Corte di Cassazione
Contro la sentenza della Corte d'Appello salernitana veniva proposto ricorso per Cassazione, essenzialmente sulla scorta dei seguenti motivi:
- l'art. 1102 del codice civile consente un uso più intenso della cosa comune, purché non se ne alteri la destinazione e non si impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto;
- le vetrine apposte sui muri condominiali erano asservite all'immobile di proprietà della ricorrente principale da oltre quaranta anni, sicché alcuna alterazione vi sarebbe stata del preesistente stato di fatto e della destinazione del muro comune;
- in merito alla determinazione, da parte del giudice, degli spazi comuni da attribuire ad alcuni soltanto dei condomini, una regolamentazione dell'uso delle parti comuni non può avvenire attraverso una decisione giudiziale resa tra i soli proprietari dei vani terranei, senza il contraddittorio degli altri condomini titolari delle restanti unità immobiliari dell'edificio.
La decisione della Corte: l'uso più intenso della cosa comune e le vetrine
La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 18038 del 28 agosto 2020 in commento, ha accolto le doglianze dei ricorrenti.
Per giurisprudenza costante, la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l'art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri.
Esempio concreto di quanto appena affermato è l'assoluta legittimità dell'uso turnario dell'area adibita a parcheggio, cioè di una zona comune che può essere utilizzata a rotazione da parte di tutti i condòmini, senza negare il diritto d'uso a nessuno ma, al contempo, impedendo un godimento contemporaneo impraticabile.
Ne consegue che qualora, sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal singolo condomino deve ritenersi legittima. È lo stesso primo comma dell'art. 1102 c.c. a ricordare che il condomino può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.
Pertanto, con particolare riguardo al muro perimetrale dell'edificio (anche in considerazione delle sue funzioni accessorie di appoggio di tubi, fili, condutture, targhe, ecc.), l'apposizione di una vetrina da esposizione da parte di un condomino, in corrispondenza del proprio locale destinato all'esercizio di attività commerciale, non costituisce di per sé abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo a tutti i condòmini, se effettuata nel rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. (ex multis, Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 20/02/1997, n. 1554).
In mancanza di accordo unanime o di deliberazione maggioritaria che contenga norme circa l'uso delle parti comuni, la destinazione di queste ultime, rilevante ai fini del divieto di alterazione posto dall'art. 1102 c.c., può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti dei condomini, e cioè dall'uso ultimo voluto e realizzato dai partecipanti alla comunione, che il giudice di merito deve accertare (cfr. Cass. Sez. 2, 18/07/1984, n. 4195).
La Corte d'appello di Salerno ha correttamente esposto il principio contenuto nell'art. 1102 c.c., secondo cui è consentito un uso più intenso della cosa comune, purché non se ne alteri la destinazione e non si impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma non ha preso in considerazione le circostanze attestanti l'uso di fatto pregresso dei muri dell'androne utilizzati come vetrine per l'esposizione della merce.
Tali circostanze sull'uso praticato dell'androne, stando alle allegazioni delle ricorrenti, deporrebbero per la configurabilità di una servitù a carico dei muri comuni ed a vantaggio delle proprietà esclusive dei ricorrenti, ove la risalente utilità tratta dall'apposizione delle vetrine apparisse diversa da quella normalmente derivante dalla destinazione impressa alla parte condominiale fruita da tutti i comproprietari.
Ove, invece, la medesima utilità procurata dalle vetrine alle proprietà dei ricorrenti derivasse unicamente dalla natura e dalla pregressa destinazione pratica dei muri comuni, queste ultime si porrebbero quali parametri di riferimento della disciplina, propria della comunione, di cui all'art. 1102 c.c.
L'illegittimità della determinazione delle superfici condominiali
La Suprema Corte ha altresì accolto la doglianza in punto di determinazione, da parte del giudice d'appello, della superficie dell'androne di cui i condòmini possono disporre in ragione dei millesimi posseduti.
Secondo il giudice nomofilattico, è inammissibile la determinazione giudiziale in sede contenziosa delle superfici dell'androne utilizzabili dai condomini proprietari dei locali terranei del condominio, cui la Corte d'appello ha proceduto, peraltro, senza che al giudizio partecipassero nemmeno i restanti condomini, essendo l'androne di un edificio oggetto di proprietà comune, ai sensi dell'art 1117 c.c., per tutti i partecipanti che ne traggano utilità.