Il sottotetto è decisamente uno dei beni più contesi in condominio. Tanto è provato anche dalla recente sentenza del Tribunale di Roma (n. 11509 del 19 luglio 2022) che ha avuto ad oggetto proprio il tentativo di rivendica della soffitta condominiale.
La risposta del giudice capitolino è stata piuttosto chiara: il sottotetto è condominiale fino a prova contraria, cioè fintantoché chi ne rivendica la proprietà non dimostri, titoli alla mano, di esserne effettivamente il titolare esclusivo. Nel caso di specie la probatio diabolica tipica della rivendicazione non è stata assolta e, pertanto, il sottotetto è rimasto comune. Approfondiamo la questione.
Contenzioso sulla proprietà del sottotetto condominiale
Uno dei condòmini citava in giudizio la compagine per rivendicare la proprietà esclusiva della soffitta condominiale: a suo dire, infatti, la stessa gli sarebbe appartenuta in maniera esclusiva per successione mortis causa dal precedente titolare.
Si costituiva il convenuto eccependo la natura condominiale del sottotetto. Per la precisione, la compagine precisava che il bene di cui l'attrice rivendicava la proprietà esclusiva era comune; per di più, da oltre trent'anni, era adibito a ricovero dell'impianto di riscaldamento e condizionamento a servizio dell'intero condominio, mentre nessuna traccia di esso vi è nei titoli di proprietà prodotti dall'attrice né vi è menzione di una riserva di proprietà di detto bene nel regolamento di condominio.
L'azione di rivendicazione in ambito condominiale
Il Tribunale di Roma, con la sentenza in commento (la n. 11509 del 19 luglio 2022), si è innanzitutto soffermato sulla natura e sui presupposti dell'azione di rivendica promossa dall'attore.
In tema di rivendicazione, la prima e fondamentale indagine che il giudice deve compiere concerne l'esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della pretesa, e ciò prescindendo da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo essa uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall'attore e l'eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice, anche di ufficio.
Nel caso in esame, il titolo vantato dall'attore consiste, per sua stessa affermazione, nella dichiarazione di successione mortis causa che, però, ha solo valore indiziario in quanto atto preordinato a fini essenzialmente fiscali.
Orbene, secondo il risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte in tema di assolvimento dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il rigore del principio per cui l'attore in rivendicazione deve provare la sussistenza dell'asserito dominio sulla cosa rivendicata (c.d. probatio diabolica) va adeguato alle concrete particolarità delle singole situazioni, in relazione alla linea difensiva adottata dal convenuto.
Ne consegue che tale rigore si attenua, tra le altre ipotesi, allorquando il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore o ad uno dei danti causa dell'attore, bastando in tal caso che il rivendicante dimostri che il bene medesimo abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto.
Tali principi vanno armonizzati con quelli formatisi nella specifica materia della comproprietà e del condominio, in quanto il comune dante causa dell'attore era l'unico proprietario dell'intero stabile, il quale alienò lo stesso in parte ai danti causa dell'attore e in parte ad altro acquirente.
La presunzione di comproprietà del sottotetto
A parere del giudice capitolino, la ricostruzione fornita dall'attore è incompleta, non avendo egli prodotto il primo atto d'acquisto dall'originario proprietario unico dello stabile. Da esso si sarebbe potuto evincere che l'immobile conteso era espressamente indicato nella compravendita per poi risultare trasferito, attraverso i successivi passaggi, all'attore.
Al contrario di quanto sostenuto dall'attore, dal regolamento di condominio si può trarre un elemento presuntivo della volontà dell'originario unico proprietario di includere il sottotetto tra le parti comuni, sulle quali ciascun condomino vanta un diritto pro quota.
Tale indicazione, in assenza di un "titolo contrario" (che deve essere contemporaneo alla nascita del condominio, e non successivo come l'atto di acquisto prodotto dall'attrice) sostiene la presunzione di comproprietà di cui all'art. 1117 c.c., ed impone di ritenere che, nel caso di specie, l'immobile per cui è causa è entrato a far parte dei beni condominiali.
Del resto, nello stesso atto prodotto dall'attore si fa espressa menzione del fatto che sono comprese nella vendita "le parti comuni dell'intero stabile quale risultano dalla legge dagli usi".
Come chiarito dalla Corte di cassazione (ex multis, Cass., sent. n. 1680 del 29.01.2015), l'art. 1117 c.c. contiene un'elencazione non tassativa ma solo esemplificativa delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un'oggettiva e concreta destinazione al servizio comune di tutte o di una parte soltanto delle unità immobiliari di proprietà individuale.
Inoltre, "per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'art. 1117 cod. civ. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la reivindicatio la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova" (Cass., sent. n. 17993 del 02/08/2010).
Per "titolo" ex art. 1117 c.c. deve intendersi l'atto o l'insieme di atti che hanno dato vita al condominio: esso può essere dato, quindi, o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari, o anche dall'usucapione o da un testamento.
Come si supera la presunzione di condominialità?
Per superare la presunzione di condominialità, l'attore avrebbe dovuto dimostrare di aver acquistato il bene (e, prima di lui, i propri danti causa) dal legittimo proprietario, provando che, all'epoca della stipula dell'atto prodotto, i venditori avevano ancora la proprietà esclusiva del bene, cioè del sottotetto.
Dalla complessiva documentazione prodotta emerge, invece, non solo che tale bene non è rimasto nella proprietà esclusiva dell'originario proprietario, ma che non è stato neanche trasferito a terzi e che, con la nascita del condominio per destinazione ed uso (collocamento dell'impianto di riscaldamento refrigerazione dell'aria), il sottotetto abbia avuto fin dalla nascita del condominio natura comune e, dunque, ricadente automaticamente in comproprietà dei singoli condòmini.
In sintesi, la prova offerta dall'attore non è sufficiente a dimostrare la proprietà e a legittimare l'azione di rivendica intrapresa, con la conseguenza che la domanda va integralmente rigettata.
Va infatti ricordato che "La natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, può presumersi comune, se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato, anche solo potenzialmente, all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune; il sottotetto può considerarsi, invece, pertinenza dell'appartamento sito all'ultimo piano solo quando assolva all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall'umidità, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo" (Cass., sent. n. 9383 del 2020).