Nella vicenda oggetto della recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 14729 del 1 giugno 2025, le parti in causa hanno litigato in merito ad una servitù di passaggio, carrabile e pedonale, esercitata da un Hotel e i suoi clienti a carico di una strada condominiale ed allo scopo di accedere ad un garage dell'albergo.
L'ordinanza in commento è giunta al termine di un percorso giudiziario, alquanto lungo e complesso, caratterizzato da vari gradi di giudizio e da una pluralità di procedimenti. Chiaramente, il condominio aveva interesse a contestare il diritto esercitato dalla controparte ed era, altresì, intenzionato ad ottenere un provvedimento, in concreto, idoneo ad impedire ogni ulteriore abuso.
Perciò, all'interno di questo provvedimento degli Ermellini, seppur di riflesso, si è trattato dei rimedi a cui, in tema di servitù di passaggio illegittima in condominio, è possibile ricorrere per contrastare questo diritto reale, inevitabilmente, gravoso per il cosiddetto proprietario del fondo servente.
Più precisamente, si è parlato del procedimento ordinario da proporre per negare l'esistenza di una servitù esercitata da un terzo. Si è, quindi, discusso dell'eventuale soluzione prevista dalla legge per costringere lo stesso terzo soccombente a rispettare il dettato espresso dal giudice.
Insomma, prendendo spunto dall'ordinanza poc'anzi citata, pare opportuno approfondire l'argomento.
Actio negatoria servitutis: di cosa si tratta?
Con l'actio negatoria servitutis, il proprietario di un fondo e/o di un immobile può agire, giudizialmente, allo scopo di far accertare l'inesistenza di una servitù a carico del proprio bene, contestualmente mirando ad eliminare l'inevitabile turbativa che deriva dalla condotta del terzo.
Tale azione trova esplicito riconoscimento nel Codice civile «il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio.
Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno (art. 949 cod. civ.».
Nel conseguente procedimento, al titolare del bene spetta, semplicemente, l'onere di dimostrare il proprio titolo di proprietà, peraltro, con qualunque mezzo, anche di carattere presuntivo «la parte che agisce con l'actio negatoria deve solo provare il diritto di proprietà ai limitati fini della dimostrazione del suo titolo di legittimazione processuale: la prova della proprietà ha la preminente funzione di dimostrare la sussistenza del potere, in capo all'attore, di chiedere la cessazione (e l'eliminazione delle conseguenze) dell'attività lesiva e non già l'esistenza della titolarità della proprietà.
Da tali principi discende quello secondo cui nell'azione negatoria l'attore può fornire la proprietà con qualunque mezzo, ivi compresi gli elementi di carattere presuntivo (tra le tante, Cass. n.2838/1999; Cass. n.4803/1992)».
Viceversa, sul terzo dichiaratosi titolare della servitù in contestazione grava l'onere di comprovare il proprio diritto reale in assenza della quale dimostrazione l'actio negatoria avrebbe esito positivo «al convenuto incombe l'onere di provare l'esistenza del diritto a lui spettante (in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale) di compiere l'attività lamentata come lesiva dall'attore (cfr. Cass. n.14442/2006; Cass. n.4120/2001)».
Nel caso in commento, l'actio negatoria servitutis era stata accolta. L'Hotel convenuto e i suoi ospiti non avrebbero dovuto più accedere al garage della struttura passando attraverso l'istante condominio. Tuttavia, l'abuso continuava, stavolta per raggiungere un secondo garage dell'Hotel. Pertanto, al condominio non restava che insistere nelle azioni a tutela del proprio diritto di proprietà.
Obbligo di non facere stabilito in sentenza: come imporne il rispetto?
In un'ipotesi come quella oggetto dell'ordinanza in esame, il proprietario di un immobile agisce nei confronti del terzo poiché questi impone, illegittimamente, un peso sul bene, esercitando una servitù priva di un titolo che la giustifichi.
Al termine dell'azione legale, quindi, si ottiene una sentenza che accerta l'inesistenza della servitù e che, contestualmente, condanna la parte soccombente a non esercitare più tale condotta.
Cosa si può fare, però, se la sentenza non viene rispettata?
A rispondere a questa domanda ci pensa il Codice di procedura civile secondo il quale, unitamente al provvedimento di accertamento negativo della servitù e di conseguente condanna a rispettarlo per il futuro, è possibile imporre al soccombente il pagamento di una certa somma di denaro, qualora non dovesse rispettare l'ordine del giudice «Con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.
Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza… (Art. 614bis cod. proc. civ.)».
In particolare, tale richiesta può essere avanzata anche al giudice dell'esecuzione, qualora non sia stata proposta in precedenza.
Appare, quindi, evidente l'efficacia di questo rimedio poiché la prospettiva di dover versare una certa somma per ogni giorno in cui l'obbligo di non facere non dovesse essere rispettato, suggerisce alla parte soccombente di ottemperare alla sentenza.