Il valore del contratto
L'art.1372 c.c., "effetti del contratto", esprime un principio generale applicabile a tutti i contratti di durata, sulla cui base "il contratto ha forza di legge tra le parti".
Ciò significa che per tutta la durata del rapporto le parti sono obbligate a rispettare quanto sancito rispettivamente in capo alle stesse nel documento contrattuale.
Non così è per i contratti di natura consensuale e a produzione istantanea, si pensi ad esempio alla compravendita di un bene mobile perché il rapporto si esaurisce nel medesimo momento di assunzione delle obbligazioni.
Nonostante questo principio generale, diverse sono le ipotesi di scioglimento del rapporto per volere di un solo contraente. Si parla in generale del diritto di recesso del singolo.
In tema di appalto questa eccezione è sancita dall'art.1671 c.c., il cui tenore è il seguente: "Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno".
Il diritto di recesso del committente
Il diritto di recesso del committente rientra tra i diritti soggettivi potestativi perché può essere esercitato in qualunque momento, dopo la conclusione del contratto, a sua discrezionalità.
Il recesso è, in quanto tale, esercitabile "ad nutum", in qualsiasi momento di esecuzione del contratto di appalto e, quale esercizio di un diritto potestativo, spetta alla sola e autonoma determinazione del committente, non soggetto ad alcun controllo.
Non occorre che ricorra una giusta causa, né assumono rilievo i motivi che hanno spinto l'appaltatore a sciogliere il rapporto. Mentre esercita il recesso, non deve indicare alcunché a livello motivazionale.
Ciò in quanto la legge non sancisce un diritto dell'appaltatore alla continuazione dell'opera ma solo all'indennizzo a fronte del recesso.
Non occorre che il recesso rivesta forma scritta anche se ragioni di opportunità a livello probatorio lo consigliano. Non bisogna neppure rispettare un termine di preavviso in quanto il pregiudizio viene indennizzato sulla scorta dell'art. 1671 c.c.
Come per ogni rapporto contrattuale, il committente vede il solo limite del rispetto dei principi di buona fede e correttezza nell'esercizio del diritto (Cass. n. 20106/2009).
L'indennizzo spettante all'appaltatore
L'art. 1671 c.c. si esprime in termini di indennizzo e non di risarcimento danni perché mentre quest'ultimo è il ristoro che deriva da un atto illecito, il primo non consegue da responsabilità civile ma da un fatto che è sì vero che reca pregiudizio ma non è antigiuridico, non derivando dalla violazione di un obbligo.
Si può qualificare come riparazione pecuniaria a favore dell'appaltatore: esso serve a riequilibrare il rapporto tra le parti.
La norma indica tra ambiti in cui l'indennizzo opera: le spese sostenute, i lavori eseguiti e il mancato guadagno.
Certo è che i lavori eseguiti fino al momento del recesso devono essere corrisposti, anche considerando che il recesso ha validità ex nunc. Essi non valgono quale indennizzo ma quale parte del corrispettivo.
Con il termine "spese sostenute" si indicano tutte le spese già affrontate ma non ancora "visibili" nell'opera appaltata, ad esempio il ponteggio non ancora installato o l'acquisto di materiali.
Infine il "mancato guadagno" è ciò che si qualifica come l'utile che l'appaltatore avrebbe realizzato se l'appalto fosse stato portato a totale compimento.
Come di recente affermato dalla Suprema Corte, "in ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d'appalto, ai sensi dell'art. 1671 cod. civ., grava sull'appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, l'onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (Cass. n. 8853 del 2017; Cass. n. 9132 del 2012)".
Questo principio è stato nuovamente espresso a fronte dell'erronea affermazione della Corte di merito che il mancato guadagno dell'appaltatore sarebbe un fatto notorio di cui è certo l'an del pregiudizio salvo la prova spettante in capo al committente che l'appaltatore ha in qualche modo trovato altri clienti, così da impiegare le proprie risorse produttive e da procurarsi un pari guadagno a quello che dalla esecuzione del contratto del committente receduto.
Il principio è in termini diametralmente opposti.
=> Lavori appaltati all'impresa di un condòmino
In prima battuta è l'appaltatore a dover dimostrare il mancato guadagno perché il committente ha interrotto il rapporto con il recesso. La prova contraria può sempre essere fornita dal committente con la dimostrazione che l'appaltatore ha trovato ad esempio altro cliente a cui rivolgere i suoi lavori, senza soluzione di continuità. In questi si parla di guadagni sostitutivi.
Nei termini indicati dall'art. 1671 c.c. si ritiene che si tratti del danno emergente e del lucro cessante, da liquidare - secondo i principi regolatori del risarcimento del danno - anche in via equitativa (Cass. n. 6873/2013).
Liquidazione equitativa
Quando il giudice ritiene raggiunta la prova da parte dell'appaltatore del pregiudizio causato dal recesso da parte del committente ma consideri arduo dimostrare l'entità economica dello stesso, può liquidare il risarcimento in via equitativa.
Il criterio equitativo, metodo normale per la valutazione del lucro cessante (ex art. 2056 c.c.), può essere utilizzato per qualsiasi danno ed, in particolare, per la determinazione della quota di spese generali, costi di ammortamento, impegno improduttivo di materiali e mano d'opera e così via, quando sia impossibile o assai difficoltoso, sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, fornire la prova precisa dell'entità del pregiudizio sofferto (Cass. n. 2608/2003) (Cass. 8 marzo 2017, n. 5879).