I condòmini non possono autorizzare uno di essi ad eseguire lavori che comportino l'accorpamento, nella proprietà esclusiva, di una porzione delle parti comuni e poi ritirare il consenso, anche se prestato solamente in forma verbale. È questo, in sintesi, il principio espresso dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza numero 18929 dell'11 settembre 2020.
Il caso riguardava alcuni lavori effettuati dal condomino dell'ultimo piano. Questi, con il consenso degli altri proprietari, aveva eseguito dei lavori che avevano comportato l'accorpamento, nella sua titolarità esclusiva, del vano scale condominiale.
Secondo la Suprema Corte, se è vero che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1102 e 1117 cod. civ., non è possibile appropriarsi di aree comuni condominiali, nemmeno se queste siano di utilità solamente di uno o più condòmini, è altrettanto vero che, per principio giurisprudenziale consolidato, la revoca ingiustificata del consenso prestato agli altrui lavori può concretizzare un fatto illecito ex art. 2043 cod. civ., con obbligo per il revocante di risarcire i danni.
Vediamo come questo principio abbia trovato applicazione nella vicenda condominiale sottoposta all'attenzione della Corte Suprema.
Il consenso per l'esecuzione dei lavori di accorpamento
Il proprietario di un'abitazione condominiale adiva il Tribunale di Roma per chiedere il ripristino del vano scala condominiale che uno dei condòmini aveva accorpato all'appartamento di sua proprietà esclusiva.
Parte convenuta si costituiva eccependo la legittimità dei lavori e dell'accorpamento: tale opera, infatti, sarebbe stata realizzata con il consenso (espresso solo verbalmente) di tutti gli altri condòmini. Ma non solo: l'acquisizione di una parte dell'edificio non creava alcun danno agli altri condòmini, i quali non avevano interesse a salire oltre il pianerottolo dell'ultimo piano.
Inoltre, lo stesso condominio avrebbe tratto giovamento dai lavori sostenuti da parte convenuta, in quanto l'inglobamento avrebbe avuto quale conseguenza una maggior protezione delle cose comuni, oltre che un risparmio dei contributi altrimenti dovuti per il rifacimento e l'impermeabilizzazione della copertura fatiscente del vano scale.
Parte convenuta spiegava altresì domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni provocati dalla revoca implicita del consenso già prestato per l'esecuzione dei lavori di accorpamento del detto vano scale, lavori che erano stati portati a termine.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea e ordinava il ripristino dello stato dei luoghi.
Ritiro consenso lavori di altri, la decisione in Corte di Appello
La Corte di Appello di Roma confermava la condanna dell'appellante, cioè del condomino che aveva accorpato nella sua proprietà una parte comune condominiale.
Per il giudice di secondo grado, il tribunale aveva fatto corretta applicazione dell'articolo 1102 cod. civ., in quanto l'inglobamento della cosa comune nella propria proprietà esclusiva lede il diritto di comproprietà degli altri condòmini, a nulla valendo la pretesa maggior protezione delle cose comuni che l'inglobamento avrebbe determinato.
Nemmeno poteva accogliersi la tesi della carenza di interesse degli altri condomini a salire oltre il pianerottolo dell'ultimo piano, in quanto l'acquisizione della piena proprietà della cosa comune in capo al condomino che afferma di essere l'unico interessato a farne uso, in mancanza di ulteriori deduzioni, legittima l'interesse degli altri condomini ad opporsi.
Neanche poteva individuarsi un titolo negoziale in virtù del quale gli altri condomini avevano consentito la trasformazione di una porzione del bene immobile da cosa comune a proprietà esclusiva, anche perché mancava la forma scritta ad substantiam necessaria per ogni trasferimento immobiliare.
A detta della Corte d'Appello, non era fondato nemmeno il motivo di appello relativo a una presunta responsabilità contrattuale dei condòmini che avevano prestato il consenso ai lavori per un presunto vantaggio così ottenuto dalla cosa comune. Il consenso, pertanto, doveva qualificarsi come mero atto di liberalità che non dà luogo a una responsabilità precontrattuale.
Ritiro consenso lavori di altri, la decisione della Corte di Cassazione
Il caso giunge dunque innanzi ai Supremi Giudici i quali, se da un lato confermano quanto statuito in appello in merito all'impossibilità di accorpare alla propria proprietà una frazione della cosa comune (almeno in assenza di un atto scritto firmato da tutti i condòmini), dall'altro ribaltano quanto asserito in punto di assenza di una responsabilità ex art. 2043 cod. civ. dei condòmini.
Con l'ordinanza in commento gli ermellini richiamano quell'orientamento (Cass., sez. 2, sent. n. 5584 del 1980) a tenore del quale «il consenso verbalmente prestato dal proprietario di un fondo all'esecuzione, da parte del proprietario confinante, di opere che si risolvano in menomazioni di carattere reale per il suo immobile non determina la nascita di servitù, per la mancanza del requisito dell'atto scritto, richiesto dall'art 1350, n. 4, cod civ; ma, la prestazione e la successiva revoca del consenso, in relazione alle circostanze in cui si sono verificate, possono concretizzare un fatto illecito, ai sensi dell'art 2043 cod. civ., per il quale e sufficiente dal punto di vista soggettivo la colpa, senza che sia necessaria la fraudolenza del comportamento di chi aveva prestato e poi revocato il consenso stesso».
Dunque, il consenso manifestato inizialmente dai condòmini, i quali erano d'accordo all'esecuzione dei lavori e all'accorpamento del vano scale per ragioni egoistiche, anche se qualificato come atto di liberalità per la mancanza di un corrispettivo (come sostenuto dal giudice d'appello), non è sufficiente ad escludere la responsabilità extracontrattuale derivante dall'aver prima dato il consenso all'esecuzione dei lavori e, successivamente all'esecuzione degli stessi, dall'averlo revocato citando in giudizio il condomino.
In tali casi, dunque, non rileva che il consenso ai lavori sia stato espresso senza la forma prescritta dalla legge, in quanto ciò che conta è la sussistenza dei presupposti dell'illecito extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.
Ecco dunque perché ritirare il consenso all'esecuzione dei lavori può costare caro: il rischio è di incorrere in responsabilità extracontrattuale, con conseguente obbligo a risarcire i danni patiti da controparte.
I principi espressi dalla Corte di Cassazione
Tirando le fila di quanto detto sinora, la Corte di Cassazione, con l'ordinanza numero 18929 dell'11 settembre 2020, ha espresso i seguenti principi:
- l'uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex art. 1102 cod. civ. non possono mai concretizzarsi nell'appropriazione del bene mediante un sostanziale spoglio degli altri comproprietari o condòmini, sicché l'effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali (quali le scale e il pianerottolo) si concretizzano in una turbativa del possesso che legittima il condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva;
- l'ingiustificata revoca del consenso prestato all'esecuzione dei lavori, anche quando questi incidono sulla proprietà altrui comportandone l'accorpamento a quella del committente dell'opera, può costituire illecito extracontrattuale, anche se il consenso era stato espresso solo verbalmente.