Per identificare gli animali che vivono nelle nostre case si utilizza un'ampia terminologia. Il Codice civile parla di "animali domestici"; alcuni provvedimenti ministeriali (si veda il D.P.C.M. 28 febbraio 2003) fanno riferimento agli "animali da compagnia" identificabili in "ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall'uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all'uomo, come il cane per disabili, gli animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella pubblicità".
Ed ancora abbiamo un diverso termine, quale gli "animali d'affezione", coniato sempre dal legislatore, il quale nella legge quadro n. 281/1991 li aveva sostanzialmente individuati nei cani e gatti.
Comunque li si vogliano chiamare questi animali rappresentano una parte essenziale della vita dell'uomo e, proprio per questo, una semplice norma di un regolamento del condominio non li può estromettere dall'ambiente nel quale convivono con il proprio amico umano.
Il condomino ha diritto di tenere un animale domestico. Fatto e decisione
Nel giudizio di primo grado un condomino era stato condannato ad allontanare dalla propria abitazione due cani di grossa taglia, tenuti malgrado una norma regolamentare contrattuale vietasse "in modo assoluto e tassativo… di tenere cani e gatti o altre bestie negli appartamenti o in qualsiasi altro locale dell'edificio privato o comune".
La domanda di allontanamento era stata formulata dal Condominio, pur essendo pacifico che gli animali non arrecavano alcun disturbo ai condomini in termini di tranquillità, pericolo o tutela sanitaria.
Il Tribunale aveva motivato tale decisione affermando che la mancata applicazione della norma regolamentare avrebbe leso il "diritto degli altri condomini all'osservanza del regolamento e segnatamente della prescrizione [in oggetto] che, oltre ad essere stata voluta dagli originari redattori, poteva aver costituito riferimento per coloro - i successivi acquirenti - che non volevano o non potevano convivere o comunque avere contatti con gli animali".
Peraltro, la natura degli interessi coinvolti non poteva conferire maggiore attenzione alla valorizzazione del rapporto uomo-animale, con la conseguenza che la modifica introdotta dall'art. 1138, ultimo co., c.c. ("le norme del regolamento di condominio non possono vietare di possedere o detenere animali domestici") non poteva rappresentare il valore di precetto imperativo.
La decisione è stata riformata dalla Corte di appello di Bologna che, con sentenza n. 766 pubblicata in data 17 aprile 2024, ha accolto il gravame proposto dal condomino soccombente, evidenziando come il Tribunale avesse erroneamente interpretato la norma citata per non avere preso in considerazione i plurimi principi giuridici che hanno posto al centro, tanto a livello europeo quanto nazionale, la problematica che investe il rapporto uomo/animali domestici o di affezione considerati "esseri senzienti".
Ad avviso dell'odierno giudicante, atti di derivazione europea (anche ratificati nel nostro paese) e nazionale (in particolare la legge quadro n. 291/1991 "in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo" nonché la riforma dell'art. 1138 cit.) vanno tutti in un senso unico: riconoscere un rapporto privilegiato uomo-animale domestico, nel quale individuare un interesse giuridico da tutelare ed al quale attribuire un valore di portata costituzionale ai sensi dell'art. 2, talché il diritto a tale rapporto affettivo assurge a diritto di nuova generazione, che è stato espressamente riconosciuto dal novellato art. 1138 c.c.
Il Tribunale, malgrado ciò, aveva ritenuto che il regolamento contrattuale in atto avrebbe dovuto, comunque, mantenere la propria efficacia.
La Corte del merito non è stata di questo avviso, in quanto il quadro giuridico e normativo esposto e che costituisce ius superveniens, è idoneo ad incidere sui rapporti pendenti, ex nunc, là dove "l'interesse del condominio di vedere conservata la clausola contrattuale de qua non è meritevole di tutela giacché collide con tutta evidenza sia con i principi europei che quelli del legislatore italiano sopra evidenziati posti a difesa del rapporto uomo-animale domestico".
Evoluzione della giurisprudenza in tema di coabitazione uomo-animale domestico
La decisione del Collegio bolognese ha confermato un orientamento che già in passato era emerso dalla giurisprudenza di merito sui dubbi aventi ad oggetto il divieto contenuto nell'art. 1138, ultimo comma, c.c., ovvero se questo fosse applicabile anche al regolamento di natura contrattuale e regolarmente trascritto, l'unico atto che può imporre limiti ai diritti dei singoli sulle proprietà esclusive.
L'entrata in vigore della legge n. 220/2012 ha, pertanto, rappresentato una cesura tra i principi di elaborazione giurisprudenziale in materia antecedenti e successivi alla normativa richiamata. Infatti, una delle ultime se non l'ultima decisione della Corte suprema, che sull'argomento registriamo, aveva affermato che "in tema di condominio negli edifici, il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva" (Cass. 15 febbraio 2011, n. 3705).
Ciò in quanto devono necessariamente rinvenirsi nella volontà dei singoli la fonte giustificatrice di atti dispositivi incidenti nella loro sfera giuridica.
La costruzione giurisprudenziale, riferita a questo specifico argomento, è venuta meno con l'ingresso del nuovo art. 1138 c.c. rispetto al quale - come affermato in una delle prime decisioni di merito (Trib. Cagliari 22 luglio 2016) - non può discendere una qualsiasi conseguenza dal fatto che il divieto ivi contenuto sia stato inserito fisicamente in una disposizione che disciplina anche le ipotesi di regolamento c.d. assembleare, dovendosi prendere in considerazione anche il disposto dell'art. 155, comma 2, disp. att. c.c., secondo il quale "cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell'ultimo comma dell'art. 1138 del codice".
Né si può ritenere che tale norma non si applichi anche al nuovo ultimo comma introdotto con la legge del 2012, visto che in questo senso la disposizione attuativa non è stata modificata in senso contrario.
In ogni caso questo non significa che il regolamento del condominio nulla possa disporre in merito alla gestione degli animali domestici in rapporto alle parti comuni dello stabile. Ad esempio, sarebbe valida una clausola regolamentare che vieti di utilizzare l'ascensore quando ci sia un animale; quella che vieti che le deiezioni dei cani siano rilasciate nelle zone comuni, con il conseguente obbligo dei proprietari di provvedere all'immediata raccolta delle stesse, od ancora quella che imponga delle sanzioni in caso di accertata violazione del divieto stesso.
In tutti questi casi, infatti, non si può parlare di norme contrattuali ma di disposizioni regolamentari, in quanto inerenti al corretto uso del bene comune, del quale i condomini devono garantire, con riferimento al caso specifico, il rispetto dell'igiene e della salute della collettività.