È possibile che si verifichi la risoluzione del rapporto di portierato imputabile ad un comportamento negligente del portiere o comunque a gravi inadempienze contrattuali che ledano irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il condominio.
Così, ad esempio, qualora il portiere insulti un condomino, ma l'episodio sia unico, difficilmente si potrebbe parlare di giusta causa di licenziamento.
Se, però, gli insulti sono "seriali" e al portiere sono state già irrogate diverse sanzioni disciplinari per condotte analoghe, la fine del rapporto di lavoro è inevitabile.
Allo stesso modo, se il lavoratore non riesce a portare adeguate giustificazioni della propria assenza, tale condotta può condurre al licenziamento per giusta causa.
Lo stesso dicasi per la ripetuta ubriachezza in servizio o le ferie non autorizzate dal datore di lavoro o l'offesa grave o il turpiloquio di un portiere nei confronti del condomino (che è un comportamento contrario al vivere civile della comunità dell'edificio).
In tali casi l'amministratore, autorizzato dall'assemblea, comunica per iscritto la decisione al portiere con una lettera che deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.
La forma scritta e la specificazione dei motivi sono indispensabili per l'efficacia del licenziamento.
Come è stato affermato nella recentissima sentenza della Cassazione n. 32551 del 8 novembre 2021, affinché si ravvisi un licenziamento nullo perché ritorsivo è necessario che sussista un motivo illecito a carattere determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c.
Il licenziamento ritorsivo costituisce un particolare ipotesi di cessazione di un rapporto di lavoro che fondamentalmente si caratterizza per la natura vendicativa, e, quindi, illegittima del provvedimento assunto dal datore di lavoro, adottato non per sanzionare comportamenti scorretti, ma, semmai, per «punire» il portiere per un comportamento legittimo, espressione dei suoi diritti.
Non è facile parlare di licenziamento ritorsivo del portiere: la vicenda
Un portiere veniva sottoposto a procedimento disciplinare sia per essersi ubriacato e poi aver dato «dato in escandescenze» presso la propria abitazione, tanto da rendere necessario l'intervento urgente delle forze dell'ordine (che lo hanno accompagnato all'ospedale), sia per non aver prestato attività lavorativa dal lunedì fino al giovedì senza giustificare l'assenza, né chiedere autorizzazione all'amministratore di condominio. Successivamente i condomini decidevano con delibera di licenziarlo.
Il Tribunale, però, dichiarava illegittimo il licenziamento in tronco, accordandogli la tutela obbligatoria e quantificando il danno in misura pari a sei mensilità; a sostegno della decisione il giudice di primo grado osservava che i fatti contestati riguardavano la vita privata del lavoratore e si erano verificati presso l'abitazione e fuori dall'orario di lavoro, mentre l'assenza era sostanzialmente giustificata in quanto dovuta al ricovero del lavoratore in ospedale; del resto, per il Tribunale, la mancata comunicazione del motivo dell'assenza all'amministratore non era di gravità tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro: in altre parole, il licenziamento in tronco si doveva considerare sproporzionato in rapporto alle violazioni commesse; in ogni caso lo stesso giudice escludeva la natura ritorsiva del recesso atteso che il portiere non aveva provato il carattere determinante ed esclusivo dell'intento ritorsivo, costituito dall'ostilità personale di due condomini che avrebbero condizionato la volontà della maggioranza. Anche la Corte d'Appello escludeva l'intento ritorsivo.
Il portiere, però, ricorreva in cassazione sostenendo che il carattere ritorsivo può essere escluso solo quando sia accertata l'esistenza di una giusta causa di recesso, potendo in tal caso essere ritenuta irrilevante l'eventuale sussistenza di un concorrente motivo illecito.
La decisione
La Cassazione ha dato torto al portiere. Secondo i giudici supremi si deve tenere conto che, in base alla previsione normativa dell'art. 18 Statuto dei lavoratori, affinché ricorra un licenziamento nullo perché ritorsivo è necessario che sussista un motivo illecito a carattere determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c. che costituisca l'unica effettiva ragione di recesso; in secondo luogo il motivo lecito formalmente addotto deve risultare insussistente nel riscontro giudiziale.
La finalità ritorsiva, quindi, può concorrere con un motivo di licenziamento lecito e può parlarsi di nullità solo nella misura in cui quest'ultimo, pur formalmente addotto nel provvedimento di espulsione, risulti non sussistente nel riscontro giudiziale e, di conseguenza, sia possibile giungere ad affermare che il licenziamento non sarebbe stato intimato in assenza della motivazione ritorsiva (Cass. sez. lav., 16 febbraio 2021, n. 4055).
Nel caso in esame - ad avviso della Cassazione - il licenziamento si è fondato sulla mancata comunicazione dell'assenza all'amministratore, fatto che, in base ad accertamento compiuto dal giudice del merito, si è effettivamente verificato, anche se è stata ritenuta sproporzionata la sanzione irrogata.
In ogni caso secondo gli ermellini l'illegittimità del licenziamento disciplinare per mancanza della giusta causa e l'assenza di motivo illecito (discriminatorio) non sono affatto incompatibili.
L'onere della prova
L'onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore e si tratta di prova certamente non agevole, in quanto diretta a dimostrare un atteggiamento della volontà datoriale, cioè l'intento ritorsivo, nonché il ruolo determinante dello stesso alla base della decisione di recesso.
La prova può essere fornita attraverso presunzioni, e a tale riguardo può attribuirsi valore indiziario all'inesistenza della ragione formalmente addotta a giustificazione del recesso.