La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36586 del 2 ottobre 2024, ha stabilito che non c'è diffamazione se si contesta la qualità di condomino in capo a un soggetto che, non essendo titolare di alcuna unità immobiliare, non ha diritto a partecipare alle assemblee né di contestarne le deliberazioni, purché il linguaggio utilizzato sia pertinente e continente, trattandosi in questo caso dell'esercizio di un legittimo diritto di critica. Analizziamo più nel dettaglio la vicenda.
Controversia condominiale: critica alla partecipazione di un non condomino
Un condomino inviava una comunicazione all'amministratore con cui criticava la partecipazione alla vita condominiale di un soggetto che condomino non era, essendo solamente coniuge di uno dei proprietari.
Nello specifico, si lamentava della sua partecipazione alle assemblee condominiali, nonché di aver tenuto un comportamento minaccioso e di avere a tal fine utilizzato la carta intestata del suo studio legale per prospettare azioni giudiziarie.
Poiché la persona oggetto di critiche esercitava la professione forense, la stessa comunicazione veniva trasmessa anche al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati affinché fosse valutata la condotta dell'iscritto.
In primo e in secondo grado il condomino veniva condannato per diffamazione.
L'imputato proponeva quindi ricorso per Cassazione dolendosi dell'ingiusta condanna e del fatto che il tenore delle lettere inviate all'amministratore e al COA non fosse diffamatorio.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 36586 del 2 ottobre 2024 in commento, ha accolto il ricorso cassando la pronuncia di condanna.
Secondo gli ermellini, dolersi con l'amministratore della partecipazione di un soggetto estraneo alla compagine rientra all'interno del diritto di critica riconosciuto a ciascuno dall'art. 21 della Costituzione («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»).
A parere della Corte di Cassazione, deve escludersi che le espressioni utilizzate dal ricorrente avessero contenuto diffamatorio: pur dando una connotazione negativa del loro destinatario, esse erano prive di valenza offensiva della sua reputazione.
Nel caso di specie, la lettera inviata all'amministratore e al COA, lungi dall'avere un'intrinseca valenza denigratoria, dal costituire un attacco diretto o un'aggressione verbale, erano inserite nel contesto di una missiva volta a sottolineare il fatto oggettivo che la persona offesa, pur abitando nel condominio, non fosse un condomino, non essendo proprietario di alcuno degli appartamenti che ne facevano parte e, dunque, non avesse titolo a contestare la deliberazione approvata dall'assemblea.
Anche con riferimento alla lettera inoltra al COA, la condotta dell'imputato rientrava nell'esercizio del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p., non avendo inteso divulgare fatti attinenti alla persona offesa né lederne la dignità e reputazione, ma solo richiedere all'organo istituzionalmente a ciò deputato la valutazione della correttezza dell'operato del legale.
Diffamazione e diritto di critica: considerazioni conclusive
La sentenza della Corte di Cassazione oggetto di commento si pone nel solco tracciato dalla precedente giurisprudenza di legittimità.
Sotto il profilo dell'esercizio del diritto di critica rispetto a frasi oggettivamente inquadrabili nel reato di diffamazione, la Suprema Corte ha affermato la necessità di contestualizzare le espressioni incriminate, riportandole nell'alveo della liceità ove non trasmodino nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (Cass., 19 febbraio 2020, n. 17243; Cass., 24 giugno 2016, n. 37397).
Ancor più recentemente la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini della riconduzione del fatto nell'alveo del diritto di critica, il giudice deve verificare se i toni utilizzati, pur se aspri, forti e sferzanti, siano pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (Cass., n. 27913/2023).
Quanto poi all'inoltro della missiva al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii un esposto a detto Consiglio, contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale di un legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Cass., 20 luglio 2016, n. 42576.
Si è più in generale affermato che l'invio di un esposto all'autorità disciplinare contenente espressioni offensive costituisce esercizio del diritto di critica costituzionalmente tutelato dall'art. 21 Cost., il quale è da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli artt. 2 e 3, considerato che senza la libertà di espressione e di critica la dialettica democratica non può realizzarsi (Cass., 20 febbraio 2008, n. 13549).