Nei rapporti tra i comproprietari di un bene, l'utilizzo della cosa comune è, frequentemente, occasione di contestazioni. Alle volte si tratta di vere e proprie beghe, spesso, alimentate da un cattivo rapporto di parentela tra le parti.
È, infatti, ciò che è accaduto nella vicenda culminata con l'ordinanza della Cassazione n. 15717 del 04 giugno 2021. Con questa recente decisione, gli Ermellini sono stati chiamati a risolvere il terzo grado di giudizio di una lite iniziata 13 anni prima.
In particolare, è stato necessario stabilire se l'uso di un cespite comune, nello specifico un'area in prossimità di due immobili, fosse legittimo o meno.
Vediamo insieme, pertanto, cosa ha condotto le parti in causa e qual è stato il motivo di tanto litigare.
il passaggio degli autoveicoli nella corte comune: il caso concreto
Come anticipato in precedenza, il contenzioso in esame nasce nel lontano 2008 e ha ad oggetto l'utilizzo di una corte comune di proprietà di due fratelli.
In particolare, uno di questi, con i propri veicoli, transitava su quest'area allo scopo di accedere ai terreni di sua competenza. Tale passaggio non era accettato dall'altro contitolare.
Egli sosteneva che il bene in contestazione, originariamente donato dal padre, era stato destinato, esclusivamente, alla sosta degli automezzi.
Per questo motivo, il passaggio delle vetture realizzava una vera e propria molestia o turbativa intollerabile.
Su questi presupposti, nasceva il primo grado di giudizio, conclusosi con un provvedimento di rigetto. In particolare, il Tribunale di Massa, con una sentenza del 2015, affermava che l'attore non fosse legittimato ad esperire la proposta actio negatoria servitutis, ma soprattutto negava che l'istante avesse dimostrato il fondamento delle proprie affermazioni.
Nonostante, l'esito negativo, il fratello/comproprietario proponeva appello sulla base delle stesse ragioni evidenziate in primo grado. Purtroppo, però, anche in seconda battuta, la domanda veniva respinta ed erano confermate le motivazioni che avevano sostenuto il verdetto precedente.
Per nulla scoraggiato dagli eventi, il sin lì soccombente contitolare dell'area proponeva ricorso in Cassazione, affidando agli Ermellini il rovesciamento delle sorti della vicenda. Nello specifico, il ricorrente insisteva, ancora una volta, sul fatto che aveva subito un uso anomalo della corte comune, in dispregio alla regola sancita dall'art. 1102 del codice civile.
Nonostante tutto, anche il terzo grado di giudizio si è concluso con un rigetto e l'ennesima soccombenza sulle spese di lite è stata inevitabile.
Uso della cosa comune: normativa di riferimento e caratteristiche
Per disciplinare l'utilizzo di un bene in comproprietà, l'art. 1102 del codice civile afferma testualmente che «ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».
Questa disposizione viene, pacificamente, applicata in tutti i casi in cui vi sia un cespite con più contitolari. Ad esempio, ciò avviene nell'ipotesi di comunione su un immobile ereditato oppure relativamente ai beni condominiali.
Le difficoltà, però, sorgono quando, rispetto ai vari casi concreti, è necessario stabilire se un determinato uso adottato da un comproprietario, sia compatibile o meno con il parimenti diritto degli altri. La soluzione è stata, sempre, affidata alla giurisprudenza, così come è avvenuto nella vicenda oggetto del pronunciamento della Cassazione.
In particolare, nel caso in esame, si è trattato di verificare se il transito dei veicoli sull'area comune avesse alterato o meno la destinazione della corte e se, nel contempo, avesse impedito l'utilizzo del bene all'altro comproprietario.
A quanto pare, la risposta è stata negativa.
Uso della cosa comune: il diritto alla migliore utilità
Secondo la giurisprudenza di legittimità, ogni comproprietario ha diritto di trarre la migliore utilità possibile da un bene comune.
A tale scopo, se possibile, potrebbe essere necessario utilizzarlo in maniera più intensa di quanto non lo fanno gli altri.
Ciò, però, non è importante essendo rilevante soltanto il fatto che non debba essere alterata la destinazione della cosa e tanto meno la possibilità per i diversi comproprietari di usare, ugualmente, il bene.
Le predette affermazioni sono contenute in quel passaggio dell'ordinanza in cui si legge che «In materia di uso della cosa comune ex art. 1102 c.c., è stato ampiamente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest'ultimi.
In particolare, per stabilire se l'uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all'uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno».
Per la Cassazione non è nemmeno decisivo che i vari comproprietari usino, diversamente, il bene comune. Insomma, il pari uso della cosa sancito dal codice civile, non significa che vi debba essere un'identica utilizzazione da parte dei vari contitolari «la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'art. 1102 c.c., non va intesa nei termini di assoluta identità dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l'identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione (Cassazione civile sez. II, 14/04/2015, n.7466; Cass. civ., n. 10453 del 2001)».