In ambito di locazioni di immobili ad uso abitativo, è del tutto legittima la pattuizione di un canone inferiore rispetto a quello equo, a condizione che risulti in modo non equivoco la volontà di derogare ai criteri di cui all'art. 12 della L. 392 del 27.07.1978.
Detta norma, infatti, limitandosi a stabilire l'ammontare massimo del canone locativo, consente alle parti di accordarsi su di un qualsiasi canone inferiore.
Questo è, in sintesi, il principio di diritto stabilito dalla recente ordinanza n. 36247 del 23.11.2021 della III Sez. Civile della Suprema Corte.
Descrizione della vicenda processuale
La pronuncia in esame trae origine dalla ordinanza n. 29834 del 2017, con la quale la Suprema Corte aveva cassato la sentenza con la quale la Corte d'Appello di Perugia aveva riconosciuto il diritto del locatore, Tizio, ad ottenere dal conduttore, Caio, la differenza tra il canone effettivamente pagato e quello corrispondente all'equo canone legale, avendo le parti originariamente concordato un importo a questo inferiore.
Pronunciando, quindi, in sede di rinvio, la Corte d'Appello di Perugia - in riforma sul punto della decisione di primo grado - con rituale sentenza numero 519 del 5 Luglio 2018, aveva rigettato la domanda del locatore avendo accertato che il "canone inferiore a quello equo fu volontariamente pattuito, nella insussistenza di qualsivoglia errore del locatore nella ricognizione dei parametri di commisurazione del canone legale".
Contro la richiamata sentenza della Corte d'Appello di Perugia, il locatore proponeva rituale ricorso per cassazione, lamentando - con il terzo motivo di detto ricorso - che il Giudice del rinvio non si fosse conformato al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, per avere ritenuto sia che l'errore nella pattuizione del canone non fosse stato eccepito, sia che esso non vertesse su un profilo tecnico relativo ai criteri per la determinazione dell'equo canone.
Il conduttore/ricorrente sosteneva, pertanto che valorizzando il profilo squisitamente tecnico di tale errore, la Corte di merito avrebbe agevolmente potuto e, soprattutto, dovuto constatare che non era stata espressa - in modo assolutamente inequivoco - la volontà del conduttore di derogare all'applicazione del canone equo ricalcolato dal Consulente Tecnico d'Ufficio.
La disposizione normativa di riferimento
L'art. 12 L. 392/1978 (Equo canone degli immobili adibiti ad uso di abitazione) stabiliva quanto segue:
"Il canone di locazione e sublocazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione non può superare il 3,85 per cento del valore locativo dell'immobile locato.
Il valore locativo è costituito dal prodotto della superficie convenzionale dell'immobile per il costo unitario di produzione del medesimo.
Il costo unitario di produzione è pari al costo base moltiplicato per i coefficienti correttivi indicati nell'articolo 15.
Gli elementi che concorrono alla determinazione del canone di affitto, accertati dalle parti, vanno indicati nel contratto di locazione.
Se l'immobile locato è completamente arredato con mobili forniti dal locatore e idonei, per consistenza e qualità, all'uso convenuto, il canone determinato ai sensi dei commi precedenti può essere maggiorato fino ad un massimo del 30 per cento".
La L. 9 dicembre 1998, n. 431 ha disposto (con l'art. 14 comma 4) l'abrogazione del presente articolo "limitatamente alle locazioni abitative".
La motivazione della suprema corte espressa nella ordinanza n. 36247 del 23.11.2021
La Corte di Cassazione, mediante la riportata ordinanza, ha ritenuto fondato ed ha, pertanto, accolto il terzo motivo di ricorso, cassando con rinvio la sentenza impugnata, fissando il seguente principio di diritto "con riguardo alle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso abitativo, la pattuizione di un canone inferiore a quello equo - quale espressione del potere di autonomia contrattuale - è lecita ove risulti in modo non equivoco la volontà di derogare ai criteri di cui all'articolo 12 legge n. 392 del 1978 il quale, limitandosi a stabilire l'ammontare massimo del canone locativo, consente alle parti di accordarsi su di un qualsiasi canone inferiore".
In forza a quanto sopra stabilito, il Giudice di rinvio aveva l'obbligo di uniformarsi, ai sensi dell'art. 384 co. II c.p.c., essendo allo stesso solo demandato di esaminare la fattispecie alla luce di esso.
Ciò non si era verificato nel caso di specie, in quanto il Giudice di rinvio - pur di fronte alla medesima ricognizione del fatto - aveva però applicato una regola di giudizio assolutamente difforme rispetto a quanto stabilito dalla Suprema Corte ed idonea a condurre ad esiti pratici opposti.
Ciò che la ordinanza oggetto del presente commento ha stabilito in ambito di oneri probatori, è che la volontà di deroga rispetto al "canone equo" non può presumersi - salvo prova contraria (vedi il caso di "errore") - ma deve essere inequivoca e, pertanto, anche positivamente accertata.
È vero che la "inequivocità" della volontà di deroga può desumersi anche da elementi presuntivi - a condizione che dette presunzioni siano gravi, precisi e concordanti; è altrettanto vero, però, che non basta il semplice "silenzio" o la "assenza di prova contraria" per far caratterizzare la volontà di deroga dalla inequivocità, in quanto sussisterebbe, in tal caso, una situazione di incertezza la cui risoluzione rimanda, necessariamente, alla regola di riparto dell'onere probatorio.
Si ritiene, quindi, che la Suprema Corte sia stata del tutto coerente con il proprio orientamento, già ribadito con le precedenti pronunce (vedi, ex multis, Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 390 del 16.01.1997; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 10024 del 9.10.1998; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 1897 del 11.02.2002.