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Licenza per finita locazione: quali sono i presupposti e le condizioni legittimanti?

La risposta è contenuta nella sentenza della Suprema Corte n. 9851/22 che ha ribadito come l'intenzione del locatore debba essere seria.
Avv. Anna Nicola 
1 Set, 2022

La vertenza è arrivata sino al grado di diritto, in sede di corte di Cassazione, a cui ha fatto seguito l'emanazione della sentenza n. 9851 del 28 marzo 2022.

Evoluzione della causa sulla licenza per finita locazione

Il locatore intima ai conduttori licenza per finita locazione per la data del 31 gennaio 2015, in relazione ad immobile di sua proprietà concesso in locazione ai predetti con contratto del 23 dicembre 2010.

Espose a fondamento che la durata era stata pattuita in anni quattro decorrenti dal 1° febbraio 2011 e che, con lettera del 13 maggio 2014, aveva inviato disdetta, essendo sua intenzione adibire l'immobile ad abitazione del figlio.

Gli intimati si opposero alla convalida eccependo il difetto di legittimazione attiva dell'intimante in quanto il contratto di locazione risultava sottoscritto da altro soggetto e quindi il ricorrente non risultava proprietario dell'immobile locato; che le intenzioni manifestate nella disdetta erano prive di fondamento in quanto il ricorrente non era proprietario di un immobile abitativo nello stesso comune.

Naturalmente vi è stato il mutamento del rito, per entrare nel merito a fondo delle domande proposte dalle parti, non potendo essere dato un riscontro sommario.

In primo grado è stata dichiarata la nullità del contratto e condannati i convenuti a rilasciare il bene ed a corrispondere al ricorrente metà delle spese di lite, compensate per l'altra metà.

La motivazione risiede nel fatto che il contratto era stato redatto come se fosse stato stipulato dal ricorrente (indicato come «locatore»), mentre era stato sottoscritto dalla moglie; nell'atto non vi era alcun elemento che permettesse di riconoscere l'esistenza di una procura o anche solo l'intento del sottoscrittore di voler firmare in rappresentanza dell'apparente contraente; poiché per la stipulazione di un contratto di locazione era necessaria la forma scritta ad substantiam anche la procura doveva aver la stessa forma; stante l'insanabile contrasto fra il soggetto indicato come parte del contratto ed il soggetto sottoscrittore, unitamente alla mancanza di procura, veniva radicalmente a mancare l'accordo, con conseguente nullità del contratto.

Sotto questo profilo andava accolta la domanda di rilascio ed i convenuti andavano condannati anche al pagamento di un'indennità per occupazione senza titolo, da determinarsi nell'importo pattuito come canone.

Proposero contrapposti gravami tutte le parti, i conduttori deducendo vizio di ultrapetizione, difetto di legittimazione attiva in capo al Tosatto, erroneità nell'an e nel quantum della riconosciuta indennità di occupazione; il ricorrente locatore, con appello incidentale, deducendo all'opposto la piena validità ed efficacia del contratto di locazione e della disdetta.

In accoglimento dell'appello incidentale, e rigettati quelli contrapposti dei conduttori, la Corte d'appello, accertata la validità del contratto di locazione e della successiva disdetta, ha dichiarato cessato il rapporto locativo alla data di scadenza del primo quadriennio, confermando la condanna dei resistenti al rilascio dell'immobile locato.

Obbligazioni principali del locatore

Essa ritiene che dal tenore complessivo del contratto si desumeva che locatore era esclusivamente il ricorrente, come tale ivi indicato, e che pertanto la sottoscrizione della moglie non aveva altro senso se non quello di agire in nome e per conto del primo.

Questa interpretazione era avvalorata dal fatto che il canone veniva versato al ricorrente e non alla di lui moglie e dalla dichiarazione del teste, agente immobiliare che aveva partecipato alle trattative ed era presente alla firma, che aveva riferito che la moglie aveva dichiarato di aver sottoscritto il contratto quale delegata del marito.

Ha soggiunto che, peraltro, l'eventuale mancanza di procura non avrebbe comunque provocato la nullità del contratto atteso che la mancanza di poteri rappresentativi avrebbe potuto essere eccepita solo dal soggetto falsamente rappresentato.

Nel caso in esame, al contrario, l'eventuale mancanza di procura avrebbe dovuto considerarsi sanata, ai sensi dell'art. 1399 c.c., dalla ratifica ravvisabile sia nella disdetta dell'8 maggio 2014, sia nell'atto introduttivo del presente procedimento.

Ha infine ritenuto valida ed efficace la disdetta, per essere a tal fine sufficiente la manifestata intenzione di destinare l'immobile ad uso abitativo del figlio ai sensi dell'art. 3, comma 1, legge n. 431 del 1998, senza necessità di fornirne la prova («fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui al comma 3 del citato art. 3, nell'eventualità in cui il locatore non abbia adibito l'immobile all'uso dichiarato nell'atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità»).

Ha precisato che non valeva ad escludere la serietà dell'intenzione manifestata nella disdetta la circostanza che il figlio fosse proprietario di un immobile nello stesso comune, atteso che all'epoca della disdetta detto immobile non era disponibile perché concesso in locazione a terzi ad uso abitativo.

Si giunge quindi in fase di giudizio di cassazione: il conduttore propone ricorso sulla base principalmente di tre motivi.

Motivazioni della sentenza in cassazione sulla locazione

  1. Il primo motivo di doglianza è aver creduto il ricorrente proprietario dell'immobile in oggetto. Anche in assenza di alcuna procura speciale derivante dalla proprietaria dell'immobile, moglie del primo che non è mai entrata nel giudizio per suffragare la tesi del ricorrente.
  2. il giudice d'appello avrebbe dovuto tener conto del fatto che il figlio era proprietario di immobile sito nello stesso comune che, però, al momento della disdetta appariva singolarmente e stranamente condotto in locazione da soggetto terzo nonché del fatto che esso odierno ricorrente (conduttore)era gravemente malato e, dunque, portatore di un interesse ben più attuale e concreto di quello manifestato dal locatore, che invece rappresentava un protesto semplice per riavere l'immobile.
  3. Errore sulla condanna all'indennità senza titolo.

La Suprema Corte in realtà ritiene inammissibile il primo motivo di lamentela, perché si qualifica motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.

Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.

In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).

È appena il caso di evidenziare che, nella specie, all'opposto di quanto postulato a fondamento del motivo in esame (e ripetuto anche nella illustrazione del terzo), la corte d'appello ha affermato la validità del contratto di locazione non perché l'iniziativa del ricorrente era stata ratificata dalla moglie, sul presupposto che tale ratifica fosse necessaria per non essere il primo né parte del contratto né proprietario dell'immobile, ma tutto all'opposto ha affermato che - giova ripetere - il contratto di locazione era valido perché:

  • il ricorrente era parte del contratto quale vero ed effettivo locatore;
  • la sottoscrizione della moglie poteva considerarsi apposta nella veste di procuratrice del marito e comunque il suo operato doveva considerarsi da quest'ultimo ratificato

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Secondo consolidata interpretazione il diniego di rinnovo di cui all'art. 3, lett. a), legge 9 dicembre 1998, n. 431, al pari dell'analogo istituto previsto dall'art. 27, legge 27 luglio 1978, n. 392, presuppone l'intenzione, e non la necessità, del locatore di disporre dell'immobile per uno degli usi previsti dalla norma; l'intenzione deve essere seria, cioè realizzabile giuridicamente e tecnicamente, ma non è sindacabile nel suo contenuto di merito, non potendo il giudice interferire sull'utilità o sulla convenienza della divisata destinazione per il locatore (Cass. 21/01/2010, n. 977; v. anche Cass. 18/05/2010, n. 12127).

Per legittimare il mancato rinnovo del rapporto da parte del locatore, è quindi sufficiente la semplice manifestazione di volontà di destinare l'immobile ad abitazione o a luogo di lavoro, propri o di un familiare, senza ulteriori formalità, fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento nell'eventualità in cui il locatore non abbia adibito l'immobile all'uso dichiarato nell'atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità (Cass. 10/12/2009, n. 25808).

Il terzo motivo è infine inammissibile, con riferimento ad entrambe le censure che al suo interno sono svolte: la prima investe una statuizione — quella della condanna al pagamento di somme a titolo di indennizzo per occupazione sine titulo — che non si rinviene nella sentenza d'appello, la quale si è limitata a confermare la condanna al rilascio dell'immobile.

È pacifico indirizzo quello secondo il quale esula dal sindacato di legittimità e rientra nei poteri discrezionali del giudila dal sindacato di legittimità e rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, essendo la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall'art. 91 cod. proc. civ., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa — ipotesi nella specie non ricorrente — o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea (Cass. n. 3272 del 07/03/2001).

In conclusione il ricorso è totalmente rigettato.

Sentenza
Scarica Cass. 28 marzo 2022 n. 9851
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