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Lavori in appalto: l'impresa risponde solo per gli inadempimenti commessi prima che il committente comunichi il recesso dal contratto

Il diritto di recesso da un contratto di appalto dà diritto al committente di ottenere il risarcimento in forma di restituzione del corrispettivo solo per i lavori non effettuati o non conformi alla “regola d'arte”.
Avv. Adriana Nicoletti 

Quando una ditta prende in carico lavori che interessano un immobile le questioni più comuni che possono sorgere tra i firmatari del contratto sono quelle che riguardano: il rispetto dei termini concernenti lo stato avanzamento dei lavori; i tempi di consegna del cantiere; la qualità delle opere eseguite; la variazione del corrispettivo in ragione delle c.d. "opere fuori contratto" e così via. Tempi di ultimazione dei lavori e rispetto dei canoni di esecuzione, che consentono una consegna delle opere in piena regola, tuttavia, rappresentano i maggiori motivi di contrasto tra le parti.

Il Tribunale di Verona, con sentenza n. 105 in data 15 gennaio 2024, ha esaminato questa problematica accogliendo, parzialmente, la domanda del committente di condanna dell'impresa inadempiente al risarcimento dei danni subiti dalla prima.

Validità del recesso e condanna dell'impresa a risarcire i danni. Fatto e decisione

I comproprietari di un immobile agivano in giudizio nei confronti dell'impresa alla quale erano stati affidati alcuni lavori di sistemazione del tetto comune, chiedendo che il Tribunale dichiarasse risolto il contratto di appalto per inadempimento della convenuta, con condanna della stessa alla restituzione del corrispettivo versato, oltre al riconoscimento del risarcimento dei danni patiti.

In via subordinata gli stessi attori chiedevano accertarsi la legittimità del loro recesso dal contratto (in quanto committenti) con condanna dell'impresa all'integrale restituzione del corrispettivo percepito, ovvero per la parte eccedente i lavori ritenuti correttamente eseguiti.

Gli attori lamentavano lavori non eseguiti a regola d'arte che, nonostante i solleciti, non erano stati completati nei termini pattuiti, anche al fine di poter godere dei benefici fiscali per l'anno di riferimento. In conseguenza i committenti avevano dovuto comunicare a controparte il recesso dal contratto, incaricando altra ditta che portasse a compimento le opere.

La convenuta si difendeva affermando l'esatta esecuzione delle opere ad eccezione di una piccola parte, consistente nella posa in opera di una parte residuale delle tegole del tetto che, dovendo essere omogenee a quelle esistenti, erano di difficile reperimento. Per esse gli attori non avevano inteso versare il saldo.

In realtà - a dire dell'impresa - l'inadempimento sarebbe stato da attribuirsi a parte attrice che, non avendo aderito alla proposta di un chiarimento, aveva affidato a terzi l'ultimazione dei lavori.

Il Tribunale ha accolto parzialmente la domanda attrice, rigettando quella principale di risoluzione del contratto di appalto atteso l'esercizio del diritto di recesso ex art. 1671 c.c. da parte dei committenti.

Sul punto, infatti, il giudicante ha affermato, sulla scorta di consolidata giurisprudenza, che "il recesso preclude, al recedente, la possibilità di domandare la risoluzione ed è esercitabile a prescindere da quali siano l'importanza e la gravità dell'inadempimento, rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall'appaltatore per l'inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso".

Parimenti, ad avviso del giudicante, "l'esercizio del recesso non priva il committente del diritto di chiedere successivamente il risarcimento dei danni per l'inadempimento in cui la controparte fosse incorsa prima del recesso medesimo e la restituzione dell'acconto eventualmente versato".

Disattesa l'eccezione della convenuta in merito alla tardività della denuncia dei vizi, in quanto oggetto del contendere era il mancato compimento dei lavori, ma non la domanda di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c. inerente al caso in cui l'opera completa sia stata consegnata dall'appaltatore, il Tribunale ha ritenuto pacifica la circostanza "madre" della controversia: ovvero che i lavori non erano stati portati a compimento per la parte riguardante le tegole del tetto, rispetto alle quali la convenuta non aveva fornito prova di un loro reperimento in tempi brevi.

Per contro la domanda di parte attrice non poteva essere accolta quanto alla integrale restituzione del corrispettivo pagato, essendo stato accertato in corso d'istruttoria (prove per testi) che gli ulteriori lavori concordati erano stati eseguiti dall'appaltatrice, mentre per quello che concerneva la cattiva esecuzione delle opere sarebbe stata la convenuta a dover dimostrare il contrario, mancando un documento di collaudo positivo e di accettazione dell'opera.

Essendo intervenuta altra ditta che aveva portato a termine i lavori originariamente affidati alla convenuta il Tribunale, per accogliere la domanda di parte attrice, non aveva potuto fare altro che richiamare l'esito della CTU, che aveva indicato qualitativamente e quantitativamente le singole opere non eseguite e, a titolo risarcitorio, i maggiori costi sostenuti per quelle fatte eseguire dal nuovo appaltatore.

Adempimento, inadempimento e rapporti contrattuali condominiali

Differenze tra risoluzione del contratto e esercizio del recesso

Come emerge dall'esame della sentenza, gli attori avevano posto nei confronti dell'appaltatore due domande: la prima, in via principale, di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell'impresa; la seconda, in via subordinata, di riconoscimento della legittimità del recesso esercitato.

In entrambi i casi, veniva proposta domanda risarcitoria: quanto alla domanda principale la richiesta era stata formulata in termini generici, quanto alla subordinata, l'istanza era connessa alla restituzione dell'integrale restituzione del corrispettivo versato o, comunque, nella restituzione di una somma determinata in via equitativa.

È interessante, a questo proposito, evidenziare la differenza tra le due domande che interessano contratti a prestazione continuativa o periodica (come, appunto, il contratto di appalto). La prima, infatti, è finalizzata ad ottenere una sentenza che determini la risoluzione (scioglimento) del contratto, legando la stessa al momento dell'inadempimento e, quindi, risultando sostanzialmente fondata sulla commissione di un illecito (nella specie: non esecuzione dei lavori a regola d'arte e ritardo degli stessi).

La seconda, invece, corrisponde ad una facoltà che la legge riconosce al committente, prescindendo da eventuali inadempimenti dell'altro contraente alle obbligazioni assunte.

Il punto è stato così chiarito dalla giurisprudenza: "nei contratti a prestazione continuata o periodica (nella specie, l'appalto), la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento è alternativa alla domanda di accertamento dell'esercizio del recesso, distinguendosene per "causa petendi" e "petitum", atteso che, mirando la prima a una pronuncia di carattere costitutivo che faccia risalire la risoluzione al momento dell'inadempimento ed essendo fondata sulla commissione di un illecito (mentre, l'altra, sull'esercizio di una facoltà consentita dalla legge), il suo accoglimento preclude l'esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale.

Ne consegue, ulteriormente, che tra dette domande non vi è rapporto di continenza, sicché possono essere proposte nello stesso giudizio, dovendo il giudice, in caso di rigetto delle domande di risoluzione, esaminare se sia fondata quella di declaratoria di legittimo esercizio del diritto di recesso" (Cass. 6 aprile 2011, n. 7878).

Il Tribunale di Verona ha seguito esattamente il principio dettato dalla Suprema Corte, scartando la domanda di risoluzione e prendendo in considerazione quella di recesso, rispetto alla quale dal testo di cui all'art. 1671 c.c. emerge che l'esercizio di tale facoltà non è necessariamente connesso o dipendente dall'inadempimento della controparte (nel caso specifico: l'appaltatore), trattandosi di un diritto potestativo, attribuito al committente, che, in quanto tale, non esige una giusta causa.

Tanto è vero che dalla norma richiamata si ricava che l'esercizio del recesso può avvenire in qualunque momento e senza che il recedente fornisca giustificazioni.

Tuttavia, nel caso portato al cospetto del giudice monocratico, i motivi erano stati indicati specificamente ed erano stati oggetto di accertamento, sia tramite l'esperimento delle prove testimonial, sia attraverso le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio. Entrambe le circostanze, pertanto, hanno consentito al giudicante di approdare ad una decisione che corretta e condivisibile.

Sentenza
Scarica Trib. Verona 15 gennaio 2024 n. 105
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