Una recente decisione del Tribunale di Lecce (sentenza n. 1992 del 20/06/2025) si è concentrata sul ruolo dell'amministratore condominiale in caso di mancata attivazione delle procedure necessarie per ottenere l'agibilità in sanatoria dell'edificio.
Per meglio comprendere tale decisione è importante precisare che una condomina - residente nel caseggiato con il proprio fratello, invalido civile affetto da gravi problemi di deambulazione - ha impugnato il certificato di agibilità rilasciato dal Comune alla società costruttrice, sostenendo che fosse illegittimo perché mancava la dichiarazione di conformità alle norme sull'accessibilità e l'eliminazione delle barriere architettoniche, come previsto dagli articoli 25 e 77 del d.P.R. 380/2001 e dalla legge 13/1989.
Il Comune aveva rilasciato l'agibilità nonostante l'edificio fosse stato realizzato in difformità rispetto al progetto originario (con modifiche strutturali, aumento delle unità immobiliari e cambio di destinazione d'uso), e solo successivamente sanato con un permesso in sanatoria.
Secondo la ricorrente, la normativa sull'accessibilità era già vigente al momento della sanatoria, e quindi doveva essere rispettata.
Il TAR ha accolto il ricorso, ritenendo che l'agibilità fosse stata rilasciata illegittimamente, in assenza della necessaria dichiarazione di conformità alle norme sull'accessibilità. Ha quindi annullato il certificato di agibilità.
La controversia esaminata dal Tribunale di Lecce ha affrontato la questione della presunta responsabilità omissiva dell'amministratore di condominio per la mancata attivazione delle procedure necessarie all'ottenimento del certificato di agibilità in sanatoria dell'edificio.
Vicenda e decisione
Due condomini, proprietari di appartamenti, box e posti auto all'interno del caseggiato, hanno convenuto in giudizio l'amministratrice, contestandole l'inerzia nel promuovere le attività necessarie per ottenere il certificato di agibilità in sanatoria dell'edificio.
Come sopra detto, il TAR di Lecce aveva annullato il certificato originariamente rilasciato dal Comune all'impresa costruttrice.
Nonostante ciò, secondo gli attori, l'amministratrice non ha mai sottoposto la questione all'assemblea condominiale, né ha assunto alcuna iniziativa, neppure dopo la formale diffida del Comune a regolarizzare la situazione per il rilascio di un nuovo certificato.
Questa presunta inerzia, secondo i ricorrenti, avrebbe causato un danno economico quantificato in via equitativa in 20.000 euro, anche in considerazione del deprezzamento degli immobili derivante dalla mancanza del certificato. Gli attori hanno quindi chiesto al Tribunale di accertare la responsabilità dell'amministratrice e condannarla al risarcimento del danno, oltre al rimborso delle spese legali.
L'amministratrice, convenuta in giudizio, ha anzitutto contestato la fondatezza delle accuse mosse nei suoi confronti.
Ha spiegato che, subito dopo la sentenza del TAR che aveva annullato il certificato di agibilità dell'edificio, si era attivata per affrontare la questione convocando un'assemblea straordinaria condominiale.
Tuttavia, tale riunione non aveva potuto svolgersi a causa dell'assenza dei condomini, rendendo impossibile discutere o deliberare alcunché.
Inoltre, la convenuta ha evidenziato come le affermazioni dei condomini sul danno subito fossero vaghe e non supportate da elementi concreti, rendendo difficile valutarne l'effettiva entità.
Ha poi eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento, sostenendo che fosse decorso il termine legale entro cui i condomini avrebbero dovuto agire. Il Tribunale ha dato ragione alla convenuta.
È emerso infatti che l'amministratrice non è rimasta inattiva rispetto alla questione dell'agibilità dell'edificio.
Come ha notato il giudice pugliese, dalla documentazione prodotta in giudizio (soprattutto una lettera del 28 settembre 2022 e alcuni scambi epistolari con uno dei condomini attori) è risultato che l'amministratrice aveva sollevato il problema in più occasioni, cercando di coinvolgere l'assemblea condominiale per trovare una soluzione.
Il Tribunale ha evidenziato infatti che per rivolvere la questione era necessario effettuare prima alcuni lavori straordinari che dovevano essere approvati dall'assemblea.
Del resto il giudice pugliese ha notato che gli ingegneri incaricati dal condominio avevano rinunciato al mandato, rendendo ancora più complesso il percorso verso la regolarizzazione.
Il giudice ha comunque respinto la richiesta di risarcimento perché gli attori non hanno spiegato chiaramente quale danno avrebbero subito.
Riflessioni conclusive
È pacifico che l'amministratore di condominio, nell'esercizio delle proprie funzioni, sia tenuto ad agire con la diligenza qualificata richiesta dall'art. 1176 c.c., comma 2, ossia quella che si esige nello svolgimento di un'attività professionale.
La norma sopra detta impone non solo attenzione e perizia, ma anche un comportamento attivo e responsabile nella gestione delle parti comuni e nell'attuazione delle delibere assembleari.
Con lo stesso "standard qualitativo" l'amministratore è tenuto, tra l'altro, a compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio (art. 1130 n. 4 c.c.).
In quest'ottica il Tribunale ha affermato che, soprattutto a seguito dell'annullamento giudiziale, rientrava certamente tra gli atti conservativi che l'amministratore avrebbe dovuto compiere quello di attivarsi per ottenere il certificato di agibilità in sanatoria, il quale attesta le condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico dell'edificio e degli impianti ivi installati. Tuttavia prima di attivare la pratica bisognava deliberare opere di straordinaria manutenzione di competenza dell'assemblea del caseggiato.
In ogni caso la richiesta di risarcimento formulata dagli attori è stata comunque respinta, poiché non hanno indicato in modo chiaro e circostanziato quale danno concreto avrebbero effettivamente subito. La Corte di Cassazione ha ribadito che il ricorso alla liquidazione equitativa del danno è ammissibile solo quando sia stata previamente dimostrata l'esistenza del pregiudizio, ma ne risulti oggettivamente difficile o impossibile una quantificazione precisa. In assenza di tale prova, l'equità non può supplire alla mancanza degli elementi essenziali per il riconoscimento del diritto al risarcimento (Cass. civ., Sez. III, 20 maggio 2025, n. 13518).