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La liquidazione equitativa dei danni al terzo danneggiato dal condominio è sempre possibile? Le ultime dalla Cassazione

La previsione di cui all'art. 1226 c.c. non attribuisce al giudice di merito un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova “semipiena” circa l'ammontare del danno.
Dott. Giuseppe Bordolli Giuseppe Bordolli 

Il giudice può quindi disporre di tale facoltà solo nel caso in cui l'esistenza del danno sia indiscutibile, ma discutibile ne sia l'ammontare. In ogni caso primo ed indefettibile presupposto per il ricorso alla liquidazione equitativa è la dimostrata esistenza di un danno certo, e non soltanto eventuale od ipotetico.

Altro presupposto è che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare.

Rimane fermo, però, che l'impossibilità o l'estrema difficoltà di una stima esatta del danno deve dipendere da fattori oggettivi e non dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l'entità del danno. Questo è quanto la Corte di Cassazione ha espresso nella recentissima sentenza del 3 novembre 2021 n. 31251 (relatore Antonio Scarpa).

La liquidazione equitativa dei danni al terzo danneggiato dal condominio: la vicenda

Una società subiva un allagamento; in particolare si verificava la fuoriuscita di liquami da una condotta di scarico, situata sotto al pavimento dei locali aziendali, tubazione che era di pertinenza di alcuni caseggiati.

Tale evento - a dire della società - aveva causato danni alla merce che si trovava all'interno del negozio, la chiusura forzata del locale per cinque mesi (necessaria per la riparazione del guasto), una sospensione dell'attività di vendita, che poi definitivamente cessava.

In considerazione di tale evento dannoso, la danneggiata citava in giudizio i predetti caseggiati per richiedere il risarcimento dei danni da quantificare a mezzo C.T.U. che pretendevano; i convenuti, però, contestavano l'individuazione dei locali coinvolti e l'entità del danno risarcibile, chiamando in causa le società assicuratrici.

Il Tribunale rigettava la domanda risarcitoria e tale decisione veniva confermata dalla Corte d'Appello secondo cui la società non aveva fornito indicazioni utili per capire il volume di affari o la redditività dell'esercizio commerciale nei periodi anteriori alle infiltrazioni, mentre inutile era la documentazione depositata (contratto di locazione, fotografie dei luoghi, elenco delle fatture della merce acquistata dal febbraio al giugno 2005, consulenza di parte, lettera del servizio liquidazione sinistri dell'assicurazione); inoltre i giudici di secondo grado escludevano l'ammissibilità di una CTU con funzione esplorativa. La questione è stata poi sottoposta ai giudici supremi.

La ricorrente, lamentava, tra l'altro, che non avrebbe potuto fornire ulteriori dati per dimostrare l'entità del danno subito; in ogni caso riteneva esistenti tutti i presupposti per l'applicazione dell'art. 1226 c.c.

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La consulenza tecnica d'ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell'ausiliario; la motivazione dell'eventuale rifiuto ad ammettere tale mezzo può essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato.

In ogni caso - come sottolineano i giudici supremi - la consulenza tecnica d'ufficio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume; di conseguenza può essere legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla mancanza delle proprie allegazioni o offerte di prova o ad ottenere un'indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.

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Come ricorda la Cassazione, per la liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., restando, peraltro, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare; a tale proposito i giudici supremi ammettono la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione dei danni derivanti dalla perdita del guadagno di un'attività commerciale.

Tuttavia osservano come spetti all'attore l'onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell'esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all'incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione.

In altre parole secondo i giudici supremi, l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, non esime la parte interessata dall'onere di dimostrare non solo l'"an debeatur" del diritto al risarcimento ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno.

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A seguito dell'allagamento di un'unità immobiliare in condominio il danneggiato normalmente richiede il risarcimento in via equitativa al giudice per il danno da diminuita godibilità del bene nell'arco temporale necessario alle riparazioni.

La liquidazione equitativa ha natura "non sostitutiva", nel senso che non può farsi ricorso ad essa per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse (sopperendo in quest'ultimo caso il rimedio della rimessione in termini).

In altre parole la liquidazione equitativa del danno si fonda sull'equità c.d. "integrativa" o "suppletiva", intesa quale principio che completa la norma giuridica e strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti nei casi dubbi, ed una diversa interpretazione dell'art. 1226 c.c., si porrebbe in contrasto col precetto costituzionale che garantisce la parità delle parti e la terzietà del giudice.

Se dunque l'equità integrativa ha lo scopo di contemperare i contrapposti interessi è evidente che essa fallirebbe del tutto il suo scopo, se vi si potesse ricorrere anche quando la stima del danno sia non impossibile, ma soltanto difficile oppure - come nel caso esaminato - quando la stima del danno non si è potuta compiere per la pigrizia delle parti.

Del resto il giudice, al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è tenuto ad indicare, almeno sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al "quantum" (Cass. civ., Sez. III, 08/01/2016, n. 127).

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Sentenza
Scarica Cass. 3 novembre 2021 n. 31251
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