È quanto stabilito dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 2910 del 21 febbraio 2023, che ha rigettato l'impugnazione di alcuni condomini delle delibere assembleari relative alla fornitura e gestione dell'impianto centralizzato.
Il caso
Alcuni condomini hanno proposto azione di annullamento di due delibere assembleari con le quali l'assemblea aveva approvato di concedere in comodato d'uso alla società X la caldaia centralizzata, proseguire nel contratto di fornitura già in essere con la stessa, impegnare il condominio con una ditta Y deputata all'installazione delle caldaie autonome e delle relative canne fumarie.
Il nodo della questione riguardava la proprietà dell'impianto centralizzato, che secondo gli attori non era più bene comune, mentre secondo il Condominio lo era ancora e anche i condomini che se ne erano distaccati sarebbero stati tenuti al pagamento delle spese relative.
Le ragioni dei condomini
Gli attori impugnavano entrambe le delibere ritenendole affette da nullità/annullabilità, perché a loro giudizio, l'assemblea avrebbe deliberato su questione di natura prettamente privata.
L'impianto di riscaldamento, le apparecchiature al suo servizio, la fornitura e gestione del servizio non avrebbero, secondo gli attori, carattere di comunione ai sensi dell'art. 1117 c.c. perché fin dalla costituzione del condominio esse sarebbero state di proprietà e gestione della società X. Ciò perché la società costruttrice del complesso condominiale aveva costituito in favore di predetta società un diritto superficiario di durata ventennale, per la realizzazione della centrale termica di uso comune e del relativo serbatoio e una servitù sempre ventennale per la posa in opera della rete di distribuzione.
In tutti i contratti di acquisto degli immobili del condominio era contenuta una clausola in cui gli acquirenti si impegnavano a succedere nel contratto stipulato con la società di energia X, con impegno a non modificare il regolamento di condominio per gli aspetti relativi a detto contratto.
Detta clausola, secondo gli attori, avrebbe determinato una novazione soggettiva e un accollo esterno della posizione giuridica dell'originario contraente, ovvero della società costruttrice nella titolarità dei diritti e degli obblighi originariamente convenuti.
Solo i singoli proprietari delle unità immobiliari sarebbero stati dunque vincolati con la società citata X, e solo agli stessi sarebbe dovuta competere la decisione sull'eventuale proroga del contratto oltre la naturale scadenza.
Proroga con la quale i condomini attori non erano d'accordo, tanto che alcuni avevano risolto il contratto con X, dotandosi di un proprio autonomo impianto di riscaldamento, ed altri erano determinati a terminare il contratto di fornitura con X alla naturale scadenza.
La difesa del Condominio
Per la difesa del condominio, gli attori non avrebbero avuto alcun interesse ad agire contro la delibera che decideva la stipula del contratto di fornitura, la quale non approvava alcuna spesa da ripartire secondo i millesimi, e dunque avrebbe avuto natura meramente preparatoria, programmatica ed interlocutoria, non produttiva di effetti giuridici.
Inoltre il Condominio riaffermava che l'impianto centralizzato sarebbe stato ricompreso tra i beni di uso comune (art. 1117 c.c.), alle cui spese di manutenzione, gestione e fruizione erano tenuti tutti i condomini, inclusi gli attori.
Il contratto che aveva costituito il diritto di superficie ventennale era scaduto nell'imminenza dell'assunzione delle delibere, con la conseguenza che l'impianto era tornato (come previsto nell'accordo tra la società costruttrice e la società X) alla società costruttrice e ai suoi aventi causa in forza dell'acquisto degli immobili.
Essendo l'impianto comune un bene irrinunciabile (art. 1118 c.c.), gli attori non potevano ritenersi esonerati dal pagamento delle spese straordinarie, anche se avevano risolto anticipatamente il rapporto di fornitura o si erano distaccati dall'impianto centralizzato.
Interesse ad agire per l'impugnazione di delibera
Per il Tribunale di Roma gli attori non avevano effettivamente interesse all'impugnazione delle delibere. L'interesse all'azione (art. 100 c.p.c.), scrive il Giudice capitolino, va valutato "considerando l'utilità concreta che la parte può vedersi riconosciuta dall'accoglimento della pretesa fatta valere".
In tema di delibere condominiali, il Tribunale ricorda di distinguere tra vizi meramente formali e vizi sostanziali.
- Per i vizi formali, la giurisprudenza costante ritiene che l'interesse ad agire sia in re ipsa in quanto "la legittimazione ad agire attribuita dall'art. 1137 c.c. ai condomini assenti e dissenzienti non è subordinata alla deduzione ed alla prova di uno specifico interesse diverso da quello alla rimozione dell'atto impugnato, essendo l'interesse ad agire, richiesto dall'art. 100 c.p.c., come condizione dell'azione di annullamento anzidetta, costituito proprio dall'accertamento dei vizi formali di cui affette le deliberazioni"
- Per i vizi sostanziali invece occorrerebbe un interesse concreto e dunque l'esistenza di un vantaggio effettivo che potrebbe derivare dalla pronuncia giurisdizionale o la presenza di un danno derivante dalla delibera assertivamente viziata.
Eccesso di potere della delibera
Il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere assembleari, prosegue il Tribunale, è limitato al controllo della legittimità della decisione in termini di osservanza delle norme di legge, del regolamento condominiale e di eccesso di potere, inteso come esercizio legittimo del potere di cui l'assemblea dispone.
Il giudice invece non può entrare nel merito ed interferire sul controllo della discrezionalità di cui è investita l'assemblea.
Le ragioni attinenti all'opportunità ed alla convenienza della gestione del Condominio, conclude il Tribunale, possono essere valutate soltanto in caso di delibera che arrechi grave pregiudizio alla cosa comune ai sensi dell'art. 1109 co 1 c.c. (Cass. n. 5061/2020)
La tesi degli attori è che le delibere avrebbero determinato un'illegittima invasione nella sfera di autonomia privata di cui essi sarebbero titolari, decidendo su questioni che esulano dalla sfera di potere del condominio, e determinando dunque un vizio di nullità per eccesso di potere.
Come chiarito dal Tribunale però, l'eccesso di potere della delibera necessita di una grave lesione all'interesse della comunione (art. 1109 n. 1 c.c.), e quando la delibera invece violi la legge, l'eccesso di potere non si configura come vizio autonomo, ma si identifica con la violazione di legge. "Ciò che rende viziata per eccesso di potere una delibera", scrive il Tribunale "non è l'esercizio discrezionale del potere di decisione, ma l'esercizio arbitrario della discrezionalità, ossia il suo abuso, sicché la decisione raggiunta risulti dannosa per il condominio".
L'eccesso di potere deve essere dimostrato dando la prova concreta del pregiudizio o del danno grave per il condominio, attraverso ad esempio un esame comparativo delle scelte compiute dall'assemblea.
L'onere della prova è di colui che lamenta l'eccesso di potere, tenuto a specificare perchè la decisione risulta sviata e frutto non di discrezionalità ma di arbitrio.
Decisione del caso
Nel caso di specie, non era stata data la prova dell'effettivo distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato da parte di alcuni degli attori, né la prova che avessero cessato di godere della fornitura della centrale termica.
Gli attori non avevano dimostrato poi di aver sottoscritto nuovi contratti di fornitura con altre società, e quindi non avevano dimostrato l'esercizio della propria autonomia contrattuale, che sarebbe stata ipoteticamente pregiudicata dalla decisione assunta dall'assemblea.
Inoltre, la scelta del condominio di dotarsi di una nuova fornitura per alimentare l'impianto centralizzato, risultava una necessità obbligata, secondo il Giudice, dato che il contratto precedente era in scadenza. Così come necessario sarebbe stato il contratto di comodato d'uso delimitato al periodo necessario ad evitare l'interruzione della fornitura del riscaldamento per i condomini ancora allacciati alla caldaia centralizzata.
Infine nessun pregiudizio e interesse concreto, aldilà della semplice ed astratta violazione di legge o regolamento era stata sollevata dagli attori, né gli stessi avevano dimostrato quali vantaggi avrebbero tratto dall'invalidazione della delibera.
Impianto di riscaldamento è bene comune
In ogni caso, per il Tribunale di Roma, non ci sarebbero dubbi: l'impianto di riscaldamento ai sensi dell'art. 1117 c.c. rientra tra i beni comuni ex lege, salvo che esista un titolo che dimostri il contrario.
Dunque anche il condomino che si distacca dall'impianto centralizzato comune è tenuto al pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria e per la sua conservazione e messa a norma. "Il condomino distaccato", scrive il giudice, "non può rinunciare all'impianto comune" in quanto, a seguito del distacco "non perde la qualità di comproprietario dell'impianto centralizzato e non può sottrarsi così alle obbligazioni propter rem che gli competono".
Nel caso di specie, al temine dei venti anni di durata del diritto di superficie, l'impianto di riscaldamento era divento di proprietà comune indivisa di tutti i condomini acquirenti.
Pertanto l'assemblea era pienamente legittimata a decidere sulla gestione della fornitura e sulle sorti dell'impianto, e i condomini attori erano tenuti a sopportare le spese comuni.