Ai sensi del primo comma dell’art. 1102 c.c.:
“ Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa”.
Si tratta di un articolo dettato in materia di comunione in generale ma che, in virtù del richiamo generale a queste norme contenuto nell’art. 1139 c.c., può essere applicato anche al condominio negli edifici.
Che cosa vuol dire pari diritto d’uso purché non vi sia alterazione della destinazione o impedimento agli altri partecipanti di esercitare il pari diritto? Ciò significa che ogni condomino può far ciò che meglio crede sfruttando la condizioni di fatto e di diritto presenti senza alterarle e soprattutto lasciando adeguata passibilità agli altri di fare parimenti.
Sulla stessa falsa riga di quanto appena detto la Cassazione ha avuto modo di affermare che “ l'art. 1102 c.c. - applicabile, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c., anche in materia di condominio negli edifici -, consente a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione, cioè non incida sulla sostanza e struttura del bene, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Il partecipante alla comunione, pertanto, può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso, o di non impedire l'altrui pari uso (Cass. Sez. 2, 12-3-2007 n. 5753); con l'ulteriore precisazione che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l'art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, posto che nei rapporti condominiali si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. 27-2-2007 n. 4617; Cass. 30-5-2003 n. 8808; Cass. 12-2-1998 n. 1499)” (Cass. 14 luglio 2011 n. 15523).
In questo contesto può accadere che sorgano delle contestazioni tra i singoli o tra i singoli ed il condominio perché l’uso del bene è considerato illegittimo o, peggio, perché viene impedito.
A partire dallo scorso mese di marzo, ai sensi del d.lgs n. 28/10, i contenziosi in materia condominiale devono essere preceduti dall’esperimenti di un tentativo di mediazione che rappresenta condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Detto diversamente: se il condomino lamenta ingiuste limitazioni, oppure se il condominio ritiene l’uso illegittimo o, ancora, se è un condomino a lamentarsi di ciò, l’interessato dovrà rivolgersi ad un organismo di mediazione, abilitato ai sensi delle vigenti leggi (sul sito del ministero della giustizia è presente un elenco costantemente aggiornato).
Questa procedura, nelle intenzioni del legislatore, oltre a rappresentare un filtro all’azione giudiziaria (questo secondo molti è stato il vero obiettivo), dovrebbe consentire una risoluzione di controversie con un accordo tra le parti attraverso un atto che non deve per forza di cose rappresentare (anzi spesso non sarà così) una sorta di sentenza.
L’accordo, se raggiunto, potrà avere il più svariato contenuto, non per forza limitato all’oggetto della contesa. Vedremo con l’applicazione pratica quali saranno i risultati.