Non è reato coltivare una sola pianta di canapa o marijuana indiana sul terrazzo di casa quando la produzione non è tale da costituire pericolo per la salute pubblica.
“La punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo se il giudice ne accerti l'inoffensività «in concreto», ossia quando la condotta sia così trascurabile da rendere irrilevante l'aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione della stessa”.
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione Penale con la sentenza n.40030 del 26 settembre 2016 in merito alla coltivazione di marijuana in condominio.
I fatti di causa. Il Tribunale di Siracusa, con sentenza, dichiarava di non dar luogo a procedere nei confronti di Tizio in ordine al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti (per l'unica piantina di marijuana detenuta in terrazzo con principio attivo di THC pari al 1,8%).
Secondo il Tribunale, la percentuale di principio attivo ricavabile dalla pianta, consentiva ragionevolmente di apprezzare un uso personale della sostanza e in particolare l'esclusione di una possibile diffusione o ampliamento della coltivazione della stessa.
Avverso l'indicata sentenza, veniva proposto ricorso per cassazione dal Procuratore della Repubblica, il quale, denunciava la violazione di legge penale in relazione agli artt. 425-428 cod. proc. pen.; in particolare, secondo la “Pubblica Accusa”, era irrilevante la quantità di principio attivo ricavabile.
Difatti doveva considerarsi, invece, l'attitudine della pianta oggetto di coltivazione a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, riscontrando in concreto l'offensività della condotta.
La coltivazione della cannabis. L'art. 73 del Testo Unico sulla droga, al prima comma prevede che
“Chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.
Dall'analisi della citata norma si evince subito che coltivare cannabis non è legale, neanche se la coltivazione avviene per uso personale.
Su tale aspetto, recentemente la Corte Costituzione con la sentenza n. 109/2016 ha confermato il principio in base al quale “nel caso di detenzione di droga per uso personale il quantitativo della sostanza stupefacente è determinato e quindi certo, per cui è possibile già effettuare una valutazione concreta di (non) pericolosità della condotta; invece, nel caso di coltivazione cannabis il quantitativo di droga è ancora incerto, non potendosi stabilire quanto il coltivatore ne estrarrà e se la stessa verrà destinata a uso proprio o meno. Dunque, in quest'ultimo caso, il reato sussiste, almeno potenzialmente”.
È chiaro però che se l'interessato verrà trovato poi con la droga ormai realizzata e tra le mani, e si tratta di un quantitativo minimo, destinabile solo a uso personale, anche se è stato lui stesso a realizzarla nel proprio orticello, non sarà punito con il codice penale.
Il quantitativo. Secondo l'orientamento di alcuni giudici, il reato di coltivazione di cannabis non sussiste finché le piante non hanno completato il ciclo di maturazione né “prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo”.
Un orientamento più recente, invece, “ritiene invece sussistente il reato anche in caso mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali (…), se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti” (Cass. sent. n. 6753/2014).
In altra recente pronuncia, la Corte ha invece evidenziato che “coltivare due o pochissime piantine di semi dai quali ricavare la droga non costituisce reato in quanto la condotta è praticamente inoffensiva e non pericolosa” (Cass. sent. n. 5254/2016).
Il ragionamento della Corte di Cassazione Penale. Nel caso in esame, i giudici hanno avuto modo di precisare che ai fini dell'offensività della condotta e della correlata punibilità non è sufficiente il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi valutare anche l'estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea a incrementare il mercato.
Trattandosi nel caso concreto della coltivazione di un'unica piantina di canapa indiana, curata in un vaso e posizionata su un terrazzo di abitazione collocata in contesto urbano, è evidente l'esclusione che da detta coltivazione possa derivare quell'aumento nella disponibilità e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi dell'offensività e punibilità della condotta ascritta.
Di conseguenza, la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo se il giudice ne accerti l'inoffensività «in concreto», ossia quando la condotta sia così trascurabile da rendere irrilevante l'aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione della stessa, risultando non sufficiente in tal senso l'accertamento della conformità al tipo botanico vietato (come già affermato dalla recente pronuncia della Cass. n. 8058/2016).
In altre parole non scatta alcun reato di coltivazione di droga quando il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante sia minimo.
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto,la Corte di Cassazione Penale con la pronuncia in commento ha respinto la domanda del Procuratore della Repubblica e per l'effetto ha confermato la decisione del Tribunale di Siracusa per l'esclusione del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti.