Vicenda assai particolare e tuttavia frequente nella prassi quella affrontata dalla Cassazione, con la recentissima ordinanza del 26 gennaio 2021, n. 1610, con la quale la medesima ha rimesso il giudizio dinnanzi alla Corte d'Appello di Trieste affinchè esaminasse il caso in diversa composizione, applicando il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte.
Principio di diritto che riportiamo subito, per poi commentarlo:
«La clausola, contenuta nel contratto di vendita di un'unità immobiliare di un condominio, con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni . nulla poiché, mediante la stessa, s'intende attuare la rinuncia di un condomino alle predette parti che è, invece, vietata dal capoverso dell'art. 1118 c.c. [art. 1118, 2° comma, c.c., N.d.r.]
D'altra parte, la cessione della proprietà esclusiva non può essere separata dal diritto sui beni comuni soltanto quando le cose comuni e i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva siano, per effetto di incorporazione fisica. indissolubilmente legate le une alle altre oppure nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l'esistenza ed il godimento delle proprietà esclusive: solo se i primi siano semplicemente funzionali all'uso e al godimento delle singole unità, queste ultime possono essere cedute separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni.»
Perché aveva errato la Corte d'Appello di Trieste, la cui sentenza viene cassata dalla Corte?
Perché i giudici dell'appello avevano ritenuto valida una clausola, contenuta dell'atto di vendita di un'unità immobiliare sita in Condominio, la quale escludeva, dai beni oggetto di trasferimento, la quota spettante a detta unità del cortile condominiale interno al fabbricato: in buona sostanza, il venditore aveva alienato al compratore l'abitazione, ma si era riservato la proprietà pro quota sul cortile.
Secondo la Corte d'Appello, la clausola era valida perché gli appartamenti del fabbricato, tra i quali quello venduto, hanno un' «autonoma consistenza, con accesso al fronte strada» e, pertanto, per essi il cortile condominiale interno non avrebbe svolto, secondo i giudici, alcuna funzione servente in veste di bene comune.
La Corte di Cassazione invita invece i giudici d'appello a riconsiderare la vicenda in virtù del principio su espresso e verificando, in particolare, se il cortile di cui è causa sia o meno bene comune condominiale ai sensi dell'art. 1117 c.c. (essendoci, a monte, un atto di divisione dal quale nacque il Condominio considerato) e, qualora il cortile possa essere qualificato come bene comune, se lo stesso sia indissolubilmente legato alle unità immobiliari facenti parte del Condominio oppure se fosse ad esse legato da mero rapporto funzionale - nel quale caso, la clausola poteva dirsi valida.
Divieto di rinuncia alla quota di beni comuni nel condominio
Come ben ci ricordano i Giudici di legittimità, in base all'art. 1118, 2° comma, c.c., il condòmino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni.
Ciò significa, in poche parole, che il condòmino non potrebbe vendere, DA SOLO, la sua quota parte del cortile, delle scale, del terrazzo comune, ad un altro (sia esso un altro condòmino o un terzo).
Ricordiamo a noi stessi di che cosa è composto il Condominio: si tratta di un cum - dominium, di una comproprietà, costituita dalle singole (ed autonome) proprietà individuali o anche dette solitarie relative alle unità abitative (o di altro uso) e dai beni e servizi che ad esse sono asserviti (l'ingresso, le scale, i pianerottoli, il tetto, i muri maestri, la fognatura, il riscaldamento, il servizio idrico, etc.).
Ebbene, quando detti beni o servizi comuni sono incorporati fisicamente alle proprietà individuali, cioè quando non è possibile separarli materialmente in modo tale che le unità possano esistere a prescindere dai beni o dai servizi, allora non sarà possibile in alcun modo procedere ad una separazione giuridica - come nel caso di specie, vendendo l'unità in modo separato rispetto ad un bene comune - salva unicamente la diversa ipotesi di divisione dell'intero Condominio alle condizioni dettate dall'art. 1119 c.c. e dagli artt 61 e 62 disp. att. c.c.
Lo stesso accade quando unità e bene comune siano anche divisibili 'in natura' e senza pregiudizio reciproco, ma sussista un vincolo di destinazione per cui il bene è essenziale per l'esistenza ed il godimento dell'unità - in altre parole, l'unità, senza il bene comune, sarebbe inservibile, quindi tanto varrebbe non acquistarla.
Esistono quindi due categorie di beni (o servizi) comuni nel Condominio: quelli 'necessari' o 'strutturali' e quelli 'funzionali'.
I primi non possono essere alienati separatamente dalle abitazioni private (o unità immobiliari facenti parte del Condominio), mentre ciò è possibile per i secondi.
Come si accerta se un bene appartiene alla prima o alla seconda categoria?
È necessario condurre un'indagine tecnica, quindi affidarsi ad un professionista che verifichi il rapporto strutturale tra le proprietà solitarie ed il bene o servizio comune considerato ed esegua la 'prova di resistenza', per vedere se le une possono esistere senza l'altro o meno.
Insomma, ancora una volta non possiamo dire che, per verificare l'elenco dei beni comuni sia necessario fare riferimento al solo art. 1117 c.c. o al Regolamento condominiale, ma dobbiamo affidarci ad un esame caso per caso sulla struttura dell'edificio di volta in volta considerato e sul rapporto delle parti con il tutto.