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Attività vietate dal regolamento condominiale, un bar non è un ristorante

Il tribunale di Pisa, con sentenza 28.12.2020 n. 1181 ha concluso un procedimento avviato da un gruppo di condòmini nei confronti della società proprietaria di un immobile sito nel Condominio e concernente l'attività di bar e ristorazione ivi esercitata.
Dott Marco Venier Dott. Marco Venier 

Il senso del provvedimento finale potrebbe essere rappresentato con il segno della "X", ben noto in ambito di competizioni sportive; in effetti vengono riconosciute parzialmente le ragioni delle parti in lite.

Di seguito si procede ad illustrare lo sviluppo del procedimento studiato dal tribunale toscano, che contiene diversi spunti interessanti.

Bar, ristorante e regolamento condominiale. L' oggetto della richiesta

Alcuni condòmini lamentavano l'esercizio dell'attività di bar e di ristorante del fondo commerciale posto al piano terra del loro Condominio in violazione, a loro dire, del regolamento condominiale contrattuale.

Risultato vano il tentativo di far intervenire il Condominio come compagine - non avendo ritenuto, l'assemblea, di intraprendere azioni nei confronti dei proprietari dell'immobile adibito ad attività commerciale - tali condòmini decidevano di agire in giudizio autonomamente per tentare di ottenere la cessazione della destinazione abusiva (secondo loro) del locale, nonché il risarcimento dei danni che affermavano di aver subito.

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A fondamento di tali richieste, la parte attrice sosteneva l'illegittimità dell'attività esercitata in quanto contraria al regolamento condominiale contrattuale il quale, all'art. 13 lett. a), vietava "la destinazione di uno o più locali facenti parte dell'edificio a cliniche mediche o chirurgiche, gabinetti di cura, ambulatori di qualsiasi specie, scuole di musica, canto o ballo, pensioni, ristoranti, alloggio anche temporaneo di persone di dubbia moralità, locali per deposito o per confezioni di merci e manufatti, sartorie, ritrovi, circoli, sedi d'associazioni, ed in genere [resta vietato] qualsiasi uso che possa turbare la tranquillità dei condomini, o che sia contrario all'igiene, alla morale o al decoro dell'edificio".

Inoltre, sempre i condòmini ricorrenti, alla lett. d) del suddetto regolamento, sottolineavano anche il divieto di destinare i locali "ad usi che turbino il pacifico godimento singolo o collettivo dei locali contigui o sovrastanti" e, sostenendo che la rumorosità generata dall'attività esercitata superasse la normale tollerabilità, chiedevano anche il risarcimento danni.

Bar, ristorante e regolamento condominiale. La posizione del convenuto

Dal canto suo, la società proprietaria del fondo ove cui si svolgeva l'attività commerciale riferita alla contestazione, sottolineava che l'immobile era stato affittato "per il solo uso di negozio, in particolare di bar" e che proprio tale attività in quanto diversa da quella di ristorazione, non rientrava tra quelle espressamente vietate dal regolamento condominiale.

Inoltre il convenuto rimarcava di aver posto in essere tutti quegli accorgimenti che avrebbero dovuto rappresentare anche una garanzia per il Condominio come il fatto di proibire il cambio di destinazione del locale e vincolare il conduttore all'osservanza del regolamento condominiale.

Ancora, la proprietà dell'immobile, affermava che la tranquillità dei condòmini, era un riferimento troppo generico e indeterminato e, in quanto tale, non poteva giustificare alcuna limitazione al diritto di proprietà esclusiva.

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In ogni caso il locatore assicurava di essersi attivato in più occasioni nei confronti dell'inquilino per far cessare le turbative lamentate dagli attori e dunque riteneva che l'unico soggetto responsabile dell'illegittima destinazione d'uso del locale e dei pregiudizi lamentati dal gruppo di condòmini ricorrenti, qualora riscontrati in sede di giudizio, fosse unicamente la conduttrice dell'immobile.

In ragione di quanto sopra, chiedeva l'autorizzazione a chiamare in causa anche i gestori del locale: una società subentrata al contratto di locazione stipulato tempo addietro con altro soggetto.

La giurisprudenza precedente, sulle clausole regolamentari limitative delle attività commerciali

Va innanzitutto premesso che non è oggetto di contestazione tra le parti la natura contrattuale del regolamento di quel Condominio (la cui osservanza, peraltro, il conduttore si era impegnato per iscritto a rispettare), sicché esso ben poteva legittimamente introdurre delle limitazioni al diritto di proprietà dei singoli condòmini.

Dunque nessun dubbio si poneva, sulla vincolatività delle previsioni del regolamento condominiale anche nei confronti del conduttore dell'immobile.

A tal riguardo, difatti, si registra orientamento consolidato della giurisprudenza (Cass., 11 settembre 2014, n.19229; Cass., 20 ottobre 2016, n.21307) sul fatto che "il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condòmini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare."

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Sempre giurisprudenza, però, aggiungeva che "per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulle proprietà dei singoli condòmini, i divieti e i limiti debbono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda a un interesse meritevole di tutela".

Dunque non basta la volontà di introdurre dei limiti che, in quanto previsti in un regolamento firmato da tutti, sarebbero certamente vincolanti per qualunque condòmino: occorre dettagliare tali divieti e limiti per evitare qualunque dubbio a riguardo di quanto è ammesso e quanto no.

Ecco, allora, che nell'applicazione del regolamento, non si può andare per analogia: non è possibile, ad esempio, affermare che un'attività è vietata perché lo è una simile.

Tra l'altro giurisprudenza ha chiarito che "l'interpretazione del contenuto della clausola del regolamento condominiale da cui scaturisca un limite o un obbligo imposto alle singole unità immobiliari deve essere compiuta restrittivamente" (Cass. 06 dicembre 2016, n.24958), e non, dunque, in via estensiva, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (Trib. Milano, 15 febbraio 2019).

In pratica, secondo le Corti, se non espressamente menzionato nel regolamento, un divieto non può essere imposto basandosi unicamente sul ritenere che quanto riportato nell'articolo interessato, non esprima esattamente l'intenzione dei condòmini.

Pertanto il significato della limitazione, seppur sottoscritta da tutti gli aventi diritto, non può andare a ricomprendere le ipotesi non espressamente menzionate.

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A tal riguardo si riporta anche un estratto di una recente sentenza emessa da un tribunale di merito secondo cui "atteso che qualsivoglia limitazione alla destinazione delle cose di proprietà individuale in ambito condominiale va inevitabilmente a comprimere o limitare il diritto di dominicale sul bene del singolo e le facoltà ad esso connesse, è chiaro come divieti e limiti a tale destinazione debbano essere espressamente previsti dal regolamento condominiale, con una elencazione dettagliata delle singole attività vietate, così come deve essere ben individuato il pregiudizio che verrebbe arrecato allo stabile, in modo da consentire di accertare l'effettiva capacità della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti che si vogliono evitare.

Ciò in quanto l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui individua limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo che possano, per ciò solo, estendere oltremodo l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale" (Trib. Torino, 27 agosto 2020, n. 2849).

Quadro normativo sulle immissioni di rumori

Un'altra problematica rappresentata dai ricorrenti, attiene la rumorosità dell'attività esercitata.

A tal riguardo l'art. 844 c.c. proprio in tema di immissioni che comprendono, ovviamente, anche quelle afferenti i rumori (anch'esse contestate nel giudizio in esame), recita "Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.

Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso."

Questo vuol dire che la discriminante tra il diritto di chiedere ed ottenere la cessazione di un dato rumore generato da un vicino, è la tollerabilità - ossia quel parametro il cui superamento produce una violazione - e questa va valutata caso per caso.

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A tal riguardo la legge ed i regolamenti individuano indici e livelli che determinano il grado di tollerabilità, tuttavia la giurisprudenza ha precisato che il superamento di questi livelli massimi, se da un lato integrano senz'altro gli estremi di un illecito, dall'altro l'eventuale non superamento potrebbe non configurare un comportamento sicuramente lecito, (Cass. 18 gennaio 2017 n. 1069), con una valutazione che in sede di giudizio è, anche ai sensi del disposto art. 844 c.c., rimessa al prudente apprezzamento del giudice il quale deve per l'appunto valutare caso per caso (Cass. 25 gennaio 2006, n. 1418).

In particolare il giudice è tenuto a considerare la situazione concreta, la vicinanza dei luoghi, gli effetti dannosi sulla salute. Può inoltre ricorrere:

  • ai rilievi tecnici e fonometrici. È utile a tal proposito ricordare che nel rilievo della rumorosità si deve considerare il rumore di fondo che la Suprema Corte ha definito come "la fascia rumorosa costante nella quale si verificano le immissioni ritenute moleste" (Cass. 17 febbraio 2014, n. 3714).
  • alle prove testimoniali poiché la giurisprudenza riconosce che i rumori ben possano cadere sotto la diretta percezione dei testi (Trib. Brescia, 26 settembre 2017, n. 2621).

Risultanza dalle indagini in sede di giudizio

Il giudice non aveva ricevuto contestazioni sulla natura contrattuale del regolamento, sicché si osserva che le clausole limitatrici nello stesso contenute ben potrebbero comprimere taluni diritti dei condòmini.

In ordine alla lesione della tranquillità degli attori a causa dell'attività commerciale esercitata dalla conduttrice, poi, le prove portate sono state ritenute insufficienti dai giudici toscani. In particolare gli stessi osservavano che non era stata prodotta alcuna perizia di parte a supporto della dedotta rumorosità in discorso e le testimonianze erano state ritenute troppo generiche e valutative.

Infine, sulla precisa natura dell'attività commerciale in corso, si deve premettere che deve operarsi una distinzione tra esercizi di ristorazione ed esercizi destinati all'attività di bar.

Ad esempio, la legge 287 n. 1991 ("aggiornamento della normativa sull'insediamento e sull'attività dei pubblici esercizi") all'art.5 differenzia tra "a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcolico superiore al 21 per cento del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari); b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcoliche di qualsiasi gradazione, nonché' di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari)".

Dunque anche sul piano normativo, va attestata l'autonomia della nozione di bar rispetto a quella di ristorante.

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Ciò premesso, comunque, i giudici rilevavano che dalla documentazione amministrativa prodotta dalla parte attrice (nello specifico si trattava di un'autorizzazione sanitaria in favore dell'originario conduttore del locale) emergeva che l'attività commerciale comprendesse tanto quella da bar quanto quella di ristorazione e per entrambe risultava chiara (stante alle dichiarazioni rese dai testi escussi) la continuità delle medesime anche nel subentro contrattuale in qualità di conduttore tra l'originario contraente e quello attuale al momento del giudizio.

Pertanto risultava pacifico che l'ultimo inquilino svolgesse tanto attività di bar quanto quella di ristorazione stante sia a quanto riportato nell'autorizzazione sanitaria che a quanto emerso dalle varie testimonianze.

Bar, ristorante e regolamento condominiale. Decisione finale del tribunale di Pisa.

Stante tutte le considerazioni illustrate e considerate dai giudici toscani, gli stessi decidevano di:

  • non accogliere la richiesta di risarcimento danni in riferimento alla presunta rumorosità dell'attività esercitata per l'insufficienza delle prove addotte;
  • non ricomprendere l'attività di bar tra quelle vietate dal regolamento condominiale contrattuale, in quanto non espressamente specificate nell'articolo interessato e non potendo applicare il criterio dell'analogia o dell'interpretazione estensiva del regolamento.

    In quanto tale l'esercente può proseguire la propria attività di bar;

  • accogliere la richiesta di far cessare l'attività di ristorazione in quanto rientrante tra quelle espressamente riportate nell'elenco dell'articolo regolamentare.

    In forza di questo, la sentenza in discorso contiene l'ordine di cessazione immediato della predetta attività.

In virtù dell'accoglimento parziale delle richieste presentate in giudizio dai ricorrenti, il tribunale pisano ha deciso di compensare integralmente le spese di lite, ossia che ciascuna parte si occupa di pagare le spese per l'assistenza legale del proprio avvocato.

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Sentenza
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