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Anche se l'usucapione non è stata oggetto di accertamento, la vendita immobiliare è valida

È sempre interesse della parte acquirente chiedere che sia accertata giudizialmente l'usucapione del bene oggetto di compravendita. Questo, tuttavia, non mette al riparo l'acquirente da fattori che potrebbero rendere l'acquisto vulnerabile.
Avv. Adriana Nicoletti 
13 Feb, 2025

L'usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, che si caratterizza non per essere riferito ad un atto notarile di trasferimento del bene tra venditore ed acquirente, ma per trovare la sua ragione in una sentenza dichiarativa del giudice, il quale deve in via preliminare accertare che ne sussistano i presupposti.

La pronuncia giudiziaria, tuttavia, non è più il solo mezzo per dare vita all'usucapione ma può sortire lo stesso effetto anche un accordo di mediazione che accerti l'usucapione con la sottoscrizione al processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (in base al combinato disposto dell'art. 2643, co. 12-bis, c.c. con l'art. 84 bis della legge n. 98/2013).

Il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 319 del 21 gennaio 2025, ha dato la possibilità di valutare anche questi aspetti dell'istituto dell'usucapione, anche se si tratti di temi non propriamente oggetto del caso concreto.

Il possesso continuato ed indisturbato è il fondamento dell'usucapione. Il fatto e la decisione

Una società, acquirente di alcuni appezzamenti di terreno con sovrastanti fabbricati non agibili, incardinava un giudizio dinanzi al Tribunale di Torino per sentire dichiarare in suo favore l'usucapione di quella parte dei detti beni, la cui proprietà era stata dichiarata nell'atto notarile usucapita pur in assenza di una sentenza.

Assumeva a tale proposito parte attrice che la venditrice, negli atti aventi ad oggetto la compravendita, aveva dichiarato che parte dei cespiti provenivano da più successioni legittime, mentre il restante patrimonio le era pervenuto in forza di possesso ultraventennale esclusivo ed ininterrotto. Quanto dichiarato, tuttavia, non era stato ancora accertato con sentenza.

Era, quindi, interesse della stessa attrice ottenere una pronuncia di intervenuta usucapione nei confronti degli altri cointestatari pro indiviso, i quali avevano abbandonato i loro possedimenti in Italia.

La domanda è stata accolta sostanzialmente sulle dichiarazioni del teste di parte attrice, amministratore degli immobili, il quale aveva confermato quanto affermato nell'atto di citazione: ovvero che la venditrice e la sua famiglia, per tutto il periodo necessario per il maturare dell'usucapione, avevano periodicamente frequentato "la casa" sita sul terreno in questione, provvedendo anche alla coltivazione del terreno circostante, recintato per inibire l'accesso a terzi.

E questo era proseguito per oltre venti anni anche dopo gli anni '70, allorché la caduta di una slavina aveva richiesto la messa in sicurezza del fabbricato mediante alcune demolizioni.

Gli stessi comproprietari, del resto, non avevano mai acceduto alla porzione del bene in questione dimostrando di non avervi alcun interesse essendo residenti all'estero.

Nessuno della comunità locale, inoltre, aveva mai visto i convenuti in loco per occuparsi della casa e del terreno.

Tale dichiarazione era stata considerata dirimente anche alla luce del comportamento processuale degli stessi, rimasti contumaci nel presente giudizio.

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Usucapione ordinaria: presupposti ed effetti sulla vendita immobiliare della mancata sentenza di accertamento

L'usucapione di beni immobili è disciplinata dall'art. 1158 c.c., a norma del quale la relativa proprietà si acquista in forza del possesso continuato per venti anni. Questo si verifica quando sia stato messo in atto "un comportamento possessorio continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa , per tutto il tempo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di un diritto reale, manifestato con il compimento di atti conformi alla qualità ed alla destinazione del bene e tali da rivelare sullo stesso, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria, in contrapposizione all'inerzia del titolare" (Cass. 12 aprile 2010, n. 8662; Cass. 24 agosto 2006, n. 18392).

A tal fine, quindi, il noto animus possidendi non può consistere in una mera convinzione di essere titolare pieno del diritto rivendicato, ma richiede un comportamento corrispondente all'esercizio di tutte quelle facoltà tipiche del proprietario.

Tali fondamenti si applicano anche nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una comunione ereditaria considerato che uno dei coeredi, dopo la morte del de cuius e prima della divisione, può usucapire la quota degli altri coeredi, senza necessità di invertire il titolo del possesso.

Anche in questo caso l'esercizio del possesso deve avvenire in termini di esclusività, ossia in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare l'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", ovvero in concorso con gli altri chiamati all'eredità.

L'onere di provare questa sorta di monopolio sul bene è a carico di colui che voglia far valere il relativo diritto sul bene in via esclusiva, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa. Né tale volontà può desumersi dal fatto che lo stesso ha utilizzato e amministrato il bene ereditario attraverso il pagamento delle imposte e lo svolgimento di opere di manutenzione, operando la presunzione "iuris tantum" che egli abbia agito nella qualità di coerede e abbia anticipato anche la quota degli altri.

Nella fattispecie, il Tribunale si è trovato proprio a dover decidere una situazione di questo tipo. Infatti, il dante causa dell'attore (la venditrice) aveva dichiarato di avere acquisito la proprietà per usucapione di una parte del compendio ereditario. Una dichiarazione, unilaterale, che non poteva avere alcun valore legale, dal momento che l'usucapione deve essere riconosciuta da una sentenza dichiarativa di accertamento.

Tuttavia, va anche osservato, da un lato, che dallo svolgimento dei fatti sembra pacifico che la venditrice non avesse promosso alcuna azione di usucapione, dal momento che la stessa sarebbe stata pacificamente coltivata dalla società acquirente dopo la compravendita e, dall'altro, che anche a fronte di una mancata sentenza di usucapione la vendita del bene non subisce conseguenze, in quanto gli effetti dell'acquisto si verificano automaticamente.

Questo è l'orientamento della Corte di cassazione che ha affermato che "non è nullo il contratto di compravendita di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell'usucapione, ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario." (Cass. 29 marzo 2018, n. 7853).

Questo comporta, tuttavia, che il notaio rogante, "in forza un obbligo di informazione e chiarimento nei confronti delle parti, è tenuto a precisare nell'atto, dopo averlo accertato, che il compratore ha ben chiaro il rischio che assume con l'acquisto, mediante apposita clausola da menzionare nel quadro "D" della nota di trascrizione, al fine di segnalare altresì a terzi la carenza della pubblica fede notarile con riguardo alla provenienza dell'immobile e all'inesistenza di formalità pregiudizievoli." (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32147; Cass. 28 aprile 2021, n. 11186; Cass. 25 ottobre 2024, n. 27709).

L'attore, quindi, che si era venuto a trovare proprio in questa situazione, per dare certezza all'acquisto effettuato in merito alla sua posizione di esclusivo proprietario del tutto, non poteva fare altro che promuovere un'azione di usucapione nei confronti degli attuali cointestatari, pro indiviso, dei beni in questione.

Sentenza
Scarica Trib. Torino 21 gennaio 2025 n. 319
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