Partiamo dall'assunto che nel nostro ordinamento costituiscono reato solo le condotte previste e punite come tali dalla normativa penale. Troppo spesso i clienti mi chiedono di fare denunce querele per aver subito un fatto che in realtà non costituisce reato ma che, in caso di querela, andrebbe incontro ad una richiesta di archiviazione da parte del Pubblico Ministero.
Ahimè succede fin troppo spesso con gli amministratori di condominio che, convinti di essere vittime delle più disparate atrocità, non si rendono conto che l'"ignoranza della legge" (chiaramente intesa come mancata conoscenza!) si paga due volte; la prima (salata!) davanti all'avvocato, la seconda davanti al Giudice o al PM.
L'art. 393 c.p., rubricato "esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle persone" punisce "Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.
Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a duecentosei euro. La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi".
Dal punto di vista del suo autore, apparentemente trattasi di reato comune in quanto la norma inizia con "chiunque". Tuttavia, nel caso di specie siamo dinanzi un reato proprio, in quanto ai fini della sua integrazione si richiede la titolarità di un diritto (anche solo presunta dal soggetto stesso).
Diritto che deve essere, di fatto, esercitabile mediante una azione dinanzi l'Autorità Giudiziaria.
Il reato ha natura plurioffensiva, considerato che il bene giuridico tutelato è, oltre all'interesse pubblico a garantire il processo, anche l'interesse privato.
Di fondamentale importanza è l'analisi dell'elemento soggettivo, ossia l'elemento psicologico. Difatti, per la configurabilità del reato non è necessario che il diritto oggetto della illegittima pretesa sia realmente esistente, essendo sufficiente che l'autore del reato agisca nella ragionevole convinzione di difendere un suo diritto(Cass. Sez II Penale, sent. n. 22490/2019).
Circa la possibilità di ricorrere al giudice, prevale la tesi della c.d. "azionabilità in concreto", ovvero la possibilità in concreto, offerta dall'ordinamento, di ricorrere al giudice.
Fatta questa premessa, come noto, il contesto condominiale è un ambiente ricco di conflitti. Conflitti nel corso dei quali facilmente le persone, con atteggiamenti aggressivi, possono varcare limiti di liceità nei confronti tra di loro.
Molto spesso vittima di tale condotta è l'amministratore di condominio, considerato dalla cultura popolare e giustizialista un vero e proprio "ladro" al pari di rapinatori, politici e banche.
In tali circostanze, volendo applicare la norma in questione in caso condominiale, il condomino o il fornitore che può azionare i propri diritti dinanzi l'autorità competente, li esercita mediante una condotta violenta nei confronti dell'amministratore di condominio (bersaglio di ogni tipologia di offesa e minaccia).
In un caso simile, il titolare di una ditta era stato condannato per l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) e danneggiamento (art. 635 c.p.), in quanto, pur potendo ricorrere al Giudice al fine di ottenere dall'amministratore di condominio il compenso per prestazioni di pulizia degli stabili condominiali effettuati, si era fatto ragione da sé, minacciando di morte l'amministratore e usando violenza consistita nel danneggiare gli sportelli dei contatori del gas del palazzo ove era ubicato il suo studio.
Avverso tale decisione, il titolare della ditta proponeva ricorso in Cassazione, eccependo l'ammontare del risarcimento richiesto in quanto si era trattato di un espediente per richiamare l'attenzione sull'impegno assunto dai condomini in relazione al pagamento dell'attività di pulizia; quanto alle minacce, l'amministratore non era presente quando il ricorrente si era recato presso il suo studio.
La Suprema Corte chiariva come il mancato pagamento delle prestazioni lavorative alla ditta manca della caratteristica della ingiustizia obiettiva (Cass. Sez II Penale, sent. n. 22490/2019).
L'ingiustizia del mancato pagamento non può, dunque, essere, dunque, esclusivamente,valutata come tale personalmente da parte dell'imputato.
Non vi era dubbio, dunque, che il titolare della ditta aveva esercitato arbitrariamente le proprie ragioni nei confronti dell'amministratore.
Irrilevante era, poi, la presenza dell'amministratore, dato che il reato di cui all'art. 392 c.p. sussiste anche quando le minacce siano rivolte a persona diversa da quella che si trovi in conflitto di interessi con l'agente.
Dunque, nonostante la palese responsabilità dell'imprenditore, la Corte di legittimità accoglieva il motivo della valutazione del risarcimento (eccessivo) dedotto nel ricorso.
Tale decisione trae origine dalla circostanza che la Corte di appello non aveva motivato in maniera esauriente sul perché fosse corretta la decisione del primo giudice di subordinare la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, ma si era limitata a confermare la decisione di quest'ultimo.
Riepilogando, dunque, lo strumento di difesa nelle mani dell'amministratore di condominio in caso di tale reato è la denuncia querela. Questo atto, scritto nella maggior parte dei casi dal legale di fiducia, va depositato presso le Forze dell'Ordine o presso l'ufficio competente della Procura della Repubblica entro (e non oltre!) tre mesi dalla conoscenza del fatto qualificato come reato. Ciò in quanto trattasi di reato punito a querela della persona offesa, e non di ufficio. Lo dice la norma stessa al primo comma.
Seguiranno al deposito della querela le indagini preliminari delle quali il PM è dominus. All'esito delle indagini il Pubblico Ministero deciderà se procedere con l'azione penale o richiedere l'archiviazione.