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Da qui non si passa! Il condominio sbarra un'area adibita al transito ed a parcheggio.

Spazi spettanti ai condomini sempre occupati da altri veicoli. Che succede quando il condominio sbarra l'area.
Maria Barletta 

La vicenda. La vicenda di cui si è occupata la Prima sezione del Tribunale di Udine (ordinanza 8 maggio 2013) riguarda un condominio di Lignano Sabbiadoro, provvisto di un'ampia area scoperta, destinata al transito pedonale e carraio, nonché al parcheggio delle autovetture dei condomini che ne sono comproprietari.

Nel 2009 e 2012, con apposite delibere, entrambe impugnate dall'attuale ricorrente, il condominio aveva deciso di chiudere, apponendo all'ingresso dell'area delle sbarre automatiche, i due accessi carrai esistenti e di impedire l'accesso all'area da parte di estranei, ma anche di clienti e fornitori dei negozi situati al piano terra dell'edificio, che occupando con i loro autoveicoli gli spazi spettanti ai condomini impedivano loro di poterne usufruire.

Parcheggiare per molto tempo sulla stessa via vuol dire possederla in modo esclusivo

Il Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, con sentenza n. 121/2011, passata in giudicato, aveva dato ragione al condominio e respinto l'impugnazione della delibera, adottata nel 2009, da parte della ricorrente; secondo il Tribunale, infatti, il ricorrente non poteva pretendere che il proprio diritto di utilizzare l'area si estendesse anche ai terzi ed ai clienti del negozio; tale comportamento, infatti, impediva ai restanti condomini di poter regolare l'accesso all'area e ne ledeva i diritti, essendo lo spazio insufficiente ad ospitare sia le automobili dei condomini che dei terzi estranei al condominio.

Con la successiva delibera del 2012, il condominio aveva deciso di dare integrale attuazione alla decisione assunta nel 2009, chiudendo anche l'area ove erano collocati sei stalli, fino a quel momento lasciati al libero utilizzo da parte di chiunque.

Come si è detto, la ricorrente ha impugnato anche la seconda delibera, sostenendo che la sua attuazione avrebbe gravemente leso il possesso della servitù industriale, acquisita per usucapione ( quindi, non costituita per titolo negoziale) sull'area rimasta liberamente accessibile da parte di chiunque. (art. 1028; in giurisprudenza si vedano Cassazione civile, sez.

II, 22/12/1994, n. 11064. secondo cui "Il passaggio della generalità dei fornitori e dei clienti, attuali o potenziali, su di una strada di accesso ad un immobile destinato ad attività commerciale costituisce utilità inerente all'immobile nella sua funzione e non all'azienda che in esso opera, e può formare oggetto di una servitù industriale, nell'ampia accezione di attività umana diversa dalla coltivazione ed utilizzazione diretta del fondo, fatta propria dall'art. 1028 c.c.; pertanto la chiusura degli accessi a tale strada mediante installazione di cancelli automatici, con contestuale consegna ai proprietari dell'immobile del congegno elettronico di apertura, costituisce una diminuzione apprezzabile della "utilitas" del fondo dominante e legittima il ripristino della situazione anteriore alla chiusura".)

Cosa occorre tener conto per determinare l'area destinata a parcheggio

Anche in questo caso, il Tribunale ha ritenuto di dover dare ragione al condominio, motivando, come segue, la propria decisione.

La decisione del Tribunale. Secondo il Tribunale, il diritto della ricorrente di far transitare e sostare nell'area condominiale i propri clienti era già stato escluso con la sentenza 121/2011, passata in giudicato.

Il Tribunale ha, altresì escluso, la possibilità di accertare l'esistenza del diritto vantato dalla ricorrente, sulla base di un diverso titolo (servitù industriale acquisita per usucapione), mai fatto valere prima e, in particolare, in occasione dell'impugnazione della delibera del 5 luglio 2009, allorchè la stessa aveva, invece, sostenuto che rientrava tra i diritti dei condomini quello di fruire delle parti comuni e di metterle a disposizione della propria clientela, affermazione subito smentita dal Tribunale (sent. 121/2011), secondo cui il riconoscimento di tale diritto necessitava di una specifica pattuizione negoziale tra le parti in causa.

Nella precedente sentenza, il Tribunale aveva, invece, riconosciuto il diritto del condominio di installare dispositivi idonei a impedire l'accesso all'area scoperta condominiale, ricomprendente anche i 6 posti lasciati, temporaneamente, nella disponibilità della ricorrente.

Il tribunale ha, infine, escluso che la nuova delibera comporti una turbativa o molestia possessoria ai danni della ricorrente. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, ai fini della configurabilità della molestia possessoria, che al pari dello spoglio, costituisce un illecito, lesivo del diritto del possessore alla conservazione della disponibilità del bene, deve essere fornita la prova, da parte di chi proponga la domanda di manutenzione (art. 1170 c.c. "Chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un'universalità di mobili [816] può, entro l'anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo.

L'azione è data se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o clandestinamente.

Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata….." ) non solo dell'atto materiale, ma anche del dolo e della colpa (Cass. 22 febbraio 2011, n. 4279; in senso conforme Cass. 20 agosto 2002, n. 12258).

A concretare la molestia che legittima il possessore ad esperire l'azione di manutenzione è sufficiente l'animus turbandi, ossia la volontà di compiere un atto che modifichi o alteri l'altrui possesso.

Questo intento deve, però, escludersi quando l'autore della molestia abbia agito nell'esercizio di una propria situazione di possesso, precedente o preminente su quello dell'attore, avendo così la giustificata convinzione di non incidere sul possesso altrui esercitando un possesso proprio (Cass. 20 maggio 1997, n. 4463; Cass. 16 marzo 1984, n. 1800).

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